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Per fermare l'implacabile declino dell'università - giovedì 7 aprile 2005 at 18:34

Per fermare l'implacabile declino dell'università italiana: cambiare radicalmente la governance ed abolire i concorsi

L’attuale empasse della politica universitaria e il suo progressivo aggravarsi è dovuta ad un meccanismo perverso dato dall’intreccio tra il sistema di governo delle università e le logiche di azione degli attori protagonisti della politica universitaria, spesso poco competenti e autoreferenziali. L’unica via d’uscita sembra quella adottata in altri paesi europei, dove si è adottato un diverso meccanismo per formare gli organi collegiali e si è rafforzato il ruolo e le responsabilità degli organi monocratici

Un sistema in declino irreversibile?

La politica universitaria italiana mostra ormai chiaramente il suo limite essenziale: la strutturale mancanza di attori responsabili e capaci di agire nell’interesse pubblico.

Si pensi, ad esempio, al proliferare irrazionale dei corsi di studio post-riforma degli ordinamenti didattici; all’attuazione della stessa riforma che è stata implementata in modo totalmente autoreferenziale (spesso il contenuto dei corsi di studio altro non è che un rifacimento del vecchio ordinamento sotto altre spoglie); al modo attraverso il quale le università spendono i propri soldi (certo, i finanziamenti sono limitati, ma a fortiori dovrebbero essere spesi razionalmente). Pensiamo, poi, ad un centro del sistema che - con il suo aggrovigliato intrecciarsi di relazioni tra ministro, ministero, Consiglio Universitario Nazionale, Conferenza dei rettori e Comitato Nazionale per la Valutazione del sistema universitario - non riesce a produrre linee strategiche coerenti e convincenti. Sistemi di valutazione discutibili, decisioni inconcludenti, disegni di legge che, come quello sullo status giuridico dei docenti universitari, propongono soluzioni vecchie e già viste.

Insomma, niente di nuovo sotto il sole della politica universitaria italiana. Di fronte ai problemi, che sono seri e veri, di un sistema che mostra tutto il suo ritardo e la sua inadeguatezza, in prospettiva comparata, soprattutto per quanto riguarda il suo ruolo nella società e il essere la primaria istituzione di istruzione superiore, tutti i protagonisti reiterano comportamenti già visti, e nulla di veramente nuovo (un diverso comportamento, una nuova idea, un nuovo progetto di sviluppo) sembra apparire all’orizzonte.

L’impressione che se ne ricava è quella di un sistema che ha irrimediabilmente intrapreso la strada del declino storico. Un declino, si badi bene, che non riguarda tanto la qualità della produzione scientifica delle università italiane e dei suoi docenti – che, tenuto conto delle scarse risorse investite, sono di buon livello – quanto, piuttosto, il ruolo di istituzione portante per la trasmissione di conoscenze, di istituzione formativa per eccellenza. Un declino che riguarda i modi in cui la politica universitaria è progettata, implementata e gestita a tutti i livelli istituzionali.

Il perché di questa situazione va ricondotto al legame tra gli attori protagonisti – con le loro idee ed i loro interessi – e gli assetti istituzionali vigenti. Credo, insomma, che il meccanismo perverso che ha originato l’attuale situazione e che contribuisce al suo progressivo aggravarsi sia dato dall’intreccio tra il sistema istituzionale di governo delle università e del sistema nazionale e le logiche di azione degli attori protagonisti della politica universitaria. Capire come si sostanzia questo intreccio è importante per comprendere la gravità della situazione e, quantomeno, per svelare l’ipocrisia istituzionalizzata che caratterizza la politica universitaria italiana.

Gli attori: irresponsabili, incompetenti ed autoreferenziali

Il primo attore che merita la nostra attenzione è quello più generale: la società italiana. Ogni istituzione cerca di rispondere alle sfide che il contesto sistemico in cui opera le pone; ed ogni istituzione ha tanto valore quanto più rappresenta qualcosa di importante, dal punto di vista materiale ed immateriale, per il sistema che la circonda. Ebbene, la società italiana, di fatto, non considera particolarmente significativa l’università. E come potrebbe essere altrimenti? Il nostro paese si caratterizza per una bassa mobilità sociale, per la gran parte non dovuta al percorso educativo (quanto, piuttosto, all’origine sociale); i cittadini non considerano la spesa famigliare per l’università un investimento sul futuro (e hanno, seppur, parzialmente, ragione); al tempo stesso l’università è considerata un diritto da garantire a tutti (tanto non fa alcuna differenza pratica); fare gli studi in una università piuttosto che in un’altra non è ritenuto significativo (conta, per quello che conta, il pezzo di carta); le università non formano le élites politiche come accade in altri paesi (in Italia le élites si formano attraverso percorsi diversi, di partito o di rappresentanza categoriale o di appartenenza sociale). Insomma l’università non è percepita avere, dal punto di vista della società, una particolare rilevanza sistemica. Persiste il vuoto mito della laurea ma, al di là di questo simulacro, nella società italiana l’università ha un ruolo sostanzialmente marginale.

In questo contesto sistemico, in cui manca una forte pressione sociale per il buon funzionamento del sistema universitario, operano altri attori che, di fatto, sono lasciati liberi, proprio per la scarsa rilevanza sociale, di agire in modo irresponsabile, a volte incompetente, spesso autoreferenziale.


Il ruolo degli attori che governano il sistema dal centro, ad esempio, rappresenta un curioso mix di questi attributi. I governi, irresponsabilmente, non hanno mai avuto il coraggio di investire nel sistema universitario risorse sufficienti per renderlo, da questo punto di vista competitivo con gli altri paesi occidentali. Al tempo stesso, non hanno mai avuto il coraggio di governare veramente il sistema universitario, lasciandolo, di fatto, nelle mani delle corporazioni accademiche (e questo sia quando il sistema era centralizzato sia ora con la politica delle autonomie). I partiti politici, con una omogenea incompetenza curiosamente bipartisan, non hanno mai avuto vere ed articolate strategie di policy sulle questioni universitarie: solo slogan, parole vuote. L’apparato centrale che si occupa di università (nelle diverse denominazioni che ha assunto storicamente) ha sempre mostrato stupefacenti lacune tecniche ed organizzative nello svolgere il proprio ruolo: una particolare incompetenza addestrata che si è espressa al suo acme quando si è trattato di costruire il software necessario per la registrazione dei nuovi corsi di laurea (chiedete i particolari a chiunque abbia avuto a che fare con il problema e vi stupirete!). La Conferenza dei Rettori, organismo di coordinamento delle università, non esprime una chiara ed innovativa linea di condotta, persistendo con un comportamento meramente rivendicativo, poiché non riesce a superare la sua strutturale spaccatura interna (tra università che hanno buone condizioni finanziare ed università, che, invece, sono sull’orlo del fallimento; tra grandi università di ricerca e piccole, periferiche università di provincia che, di fatto, svolgono solo una funzione di servizio didattico sul territorio). Il Consiglio Universitario Nazionale continua a svolgere il suo ruolo di mediazione degli interessi tra le corporazioni accademiche (e, ad esempio, può essere certamente considerato uno degli artefici dell’improvvida e deludente attuazione della riforma degli ordinamenti didattici, essendone, nella realtà, la vera guida). In realtà, l’unico attore centrale che fa bene il suo mestiere di attore per l’interesse pubblico è rappresentato dal Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema universitario, un organismo tecnico che elabora prodotto e pareri di buon livello che, solitamente, il ministro di turno cerca di disattendere o di forzare.

Anche le università, prese singolarmente, hanno interpretato la loro autonomia con un elevato tasso di autoreferenzialità, un grande senso di irresponsabilità e, in alcuni casi, con una discreta dose di incompetenza. Molte hanno investito la gran parte delle risorse finanziarie destinate al reclutamento per promuovere i propri docenti; molte hanno contratto mutui poco sostenibili; tutte hanno acceso miriadi di corsi di laurea per accontentare le proprie facoltà e i propri docenti. Insomma, hanno agito quasi che fossero istituzioni totalmente avulse da un contesto sistemico: in nome della libertà della scienza hanno agito come attori totalmente indipendenti (dalla società, dal finanziamento pubblico, dalle proprie responsabilità rispetto alla collettività).

Gli attori di base della politica universitaria, professori e studenti (e famiglie), non sono da meno. I professori sono ubiqui: alcuni sono al governo e all’opposizione, nei partiti ed in parlamento; altri governano le università, fanno i consulenti dei ministri (dell’università ma non solo), formano il Cun e la Crui, fanno parte di sindacati di categoria (più o meno rappresentativi, sia autonomi che appartenenti alle tre confederazioni maggiori), scrivono sui giornali come editorialisti. Ovviamente, anche se coinvolti in questo tourbillon di ruoli, per la gran parte i professori universitari fanno anche il loro mestiere: insegnano e fanno ricerca. Spesso, però, in situazioni logistiche che lasciano molto a desiderare, senza capire granché di quello che sta succedendo nella politica universitaria italiana (e non potrebbe essere altrimenti: il buon professore universitario è quello che studia, fa ricerca ed insegna!). La riforma degli ordinamenti didattici li ha trovati culturalmente impreparati (e nessuno si è degnato di spiegargli i fini e gli obiettivi di tale intervento strategico); continuano a ritenersi tenutari unici del sapere e a pensare di avere un ruolo sociale assolutamente rilevante. Molti continuano a pensare che il loro ruolo è quello di trasmettere conoscenze di alto livello e di preparare gli studenti all’attività di ricerca. Non vogliono accettare che, nell’università di massa, l’università ha anche il ruolo di aumentare il capitale sociale (e quindi di acculturare il cittadino medio) e di integrarsi, anche, con le esigenze del sistema economico.

Gli studenti (e con loro le rispettive famiglie) continuano a fare scelte poco ponderate per quanto concerne i corsi a cui iscriversi (seguendo mode ovvero suggerimenti amicali o, ancora, tradizioni famigliari). Nessuno gli dà un orientamento vero, e loro agiscono in uno stato di beata incoscienza.

In questo coacervo di attori totalmente autoreferenziali, irresponsabili ed a volte incompetenti non ci si deve stupire se la riforma degli ordinamenti didattici ha prodotto una situazione di caotica proliferizazione dei corsi di studio, se le proposte di riforma (della didattica, della docenza) sono basate su soluzioni ideologiche ovvero del tutto incoerenti con gli obiettivi che si deve perseguire, se tutti continuano ad accusare gli altri per i problemi del sistema e nessuno ha il coraggio di guardare al proprio comportamento.

Gli assetti istituzionali: il fattore facilitante del declino

D’altra parte attori con simili inclinazioni trovano un terreno fertile nell’assetto istituzionale di governo del sistema e delle singole istituzioni. Le istituzioni universitarie sono governate in base ad un principio democratico-corporativo. Tutti gli organi monocratici sono elettivi, tutti gli organi collegiali devono rappresentare le diverse componenti dell’università (professori, studenti e docenti). Insomma le università si autogovernato attraverso meccanismi istituzionali che «costitutivamente» non possono che produrre scelte distributive (dare qualcosa a tutti) e riprodurre lo status quo, ignorando ogni dimensione tenica del problema. In questo contesto istituzionale gli interessi dei singoli attori sono semplicemente fotografati. Questo sistema riproduce i medesimi rapporti di forza, i medesimi interessi il medesimo modo di vedere le cose. Può un’istituzione governata in questo modo prendere decisioni responsabili? Può un’università governata in questo modo decidere di distribuire le proprie risorse in modo strategico? Ovviamente no.

Il fallimento della politica dell’autonomia, sostanziata nella crisi finanziaria, nella pessima allocazione delle risorse, nel proliferare di corsi di laurea, laurea specialistica master ecc. ha nel meccanismo di governo degli atenei un fattore estremamente facilitante. L’altra faccia, però, di questa dinamica, è costituita dagli assetti di governo nazionali: un ministero tecnicamente inadeguato che ha rinunciato al proprio ruolo istituzionale a favore del Cun ovvero dei consiglieri di turno dei ministri; la presenza di una formula di finanziamento pubblico che tende, ancora a favorire la spesa storica rispetto alla performance delle istituzioni; la presenza di due diversi attori in rappresentanza del mondo accademico (la Crui e il Cun); l’assenza di un monitoraggio legittimato della ricerca e della didattica. Questi fattori hanno reso monca la politica delle autonomie: se il centro del sistema non ha una chiara strategia e non ha gli strumenti per perseguirla, oltre che la volontà, ovviamente, il sistema non viene né governato, né indirizzato. Il circolo diventa vizioso, e il strutturale sotto-finanziamento del sistema ne aumenta la velocità.

In questo contesto istituzionale, strutturalmente deresponsabilizzato e deresponsabilizzante quindi, le diverse logiche degli attori possono liberamente esprimersi e persistere nel corso del tempo. Tutti pensano di portare a casa qualche vantaggio (e penso qui, provocatoriamente, agli studenti che pensano di avere un vantaggio se possono fare l’università sotto casa, ovvero se possono iscriversi ad un dato corso di studio nella città che preferiscono! Ovvero ai professori che possono continuare ad insegnare quello che insegnavano e nello stesso modo in cui lo insegnavano anche dopo la riforma degli ordinamenti didattici!). Ma alla fine il sistema entra in crisi, le decisioni tendono a riprodurre idee vecchie e gli interessi esistenti, lentamente il sistema prende la strada del declino e, solitamente, a vedere gli effetti del declino sono le generazioni future.

L’unica alternativa praticabile: cambiare radicalmente la governance ed abolire i concorsi

Ovviamente molti sono in disaccordo con la mia analisi. Anzi, vi è chi sostiene che il problema del governo delle università sia costituito da una specie di deficit democratico, rappresentato dal fatto che il diritto di voto è attribuito solo ai docenti (con una piccola rappresentanza degli studenti e del personale tecnico-amministrativo). Secondo costoro, il sistema funzionerebbe molto meglio se fosse completamente democratico, se, cioè, tutte le componenti dell’ateneo potessero partecipare, ad esempio, alle elezioni del rettore e se la composizione degli organi collegiali non fosse troppo accademico-centrica. Ma, se fossimo realisti e seri, dovremmo sapere che simili soluzioni non farebbero altro che aggravare i problemi dell’università, innescando ulteriori degenerazioni dell’attuale pessimo funzionamento. Un esempio: se tutto il personale tecnico-amministrativo partecipasse alle elezioni del rettore, avremmo il curioso caso di una organizzazione pubblica in cui il datore di lavoro è eletto dai propri dipendenti. Come potrebbe detto datore di lavoro svolgere bene il suo mestiere, ad esempio nella contrattazione integrativa, essendo, di fatto, costantemente sotto il ricatto della controparte negoziale?

No, non potrebbe funzionare. D’altra parte ben sappiamo, o dovremmo sapere, che, nell’ultimo decennio, altri paesi dell’Europa continentale, che prima del nostro avevano intrapreso la strada della politica universitaria autonomistica, hanno radicalmente cambiato il sistema di governo degli atenei, proprio perché si erano resi conto che l’autonomia abbisogna di una grande responsabilità istituzionale e che il meccanismo democratico-corporativo tende a produrre, per contro, decisioni irresponsabili. Sto parlando di paesi come la Svezia, la Danimarca, l’Austria, l’Olanda.

Qui, con grande realismo e lungimiranza, si è deciso di seguire, per quanto possibile, l’esempio dei paesi anglosassoni, dove il principio di autogoverno delle università è stato declinato in altro modo (paesi, non dimentichiamolo, dove le università sono nate libere dallo Stato e non, come sul continente, come un prodotto dello Stato!).

Cosa hanno fatto questi paesi? Semplicemente quello che dovremo fare anche noi. Essi hanno drasticamente spezzato la catena dell’autogoverno fondato sul principio della rappresentanza corporativa, proprio della tradizione universitaria dell’Europa continentale, per scegliere la strada della nomina a cascata propria della tradizione anglosassone. Essi hanno introdotto un diverso meccanismo per formare gli organi collegiali e, al tempo stesso, hanno rafforzato il ruolo e le responsabilità degli organi monocratici (che nel nostro sistema sono continuativamente in balia dei propri elettori). In sostanza, con declinazioni diverse, questi paesi hanno stabilito che gli organi di governo degli atenei (con l’esclusione del Senato accademico) debbono essere formati attraverso un meccanismo di “nomina” e non mediante il meccanismo elettorale. I consigli di amministrazione sono nominati dagli stakeholders (forze sociali, istituzioni pubbliche, in alcuni casi anche, in parte, dal Senato accademico). Il CdA nomina il rettore, il quale ha poteri pieni, decisamente superiori a quelli che sono ora a sua disposizione. Il Rettore nomina i dirigenti, i presidi ed i direttori di dipartimento.

Non voglio entrare in possibili dettagli (ho presentato una proposta articolata sul n. 5/04 della rivista «Il Mulino»). Quello che conta è che, in un sistema strutturato in questo modo, si verticalizzano i processi decisionali e si individuano dei centri di responsabilità in modo netto e trasparente. Certo, questa soluzione istituzionale può creare dei problemi (ad esempio il rischio che il CdA, composto, per lo più da esterni, possa essere un organismo politicizzato e partigiano), ma, di certo, problemi che possono essere risolti con il buon senso e con un attento design istituzionale. Ovviamente il principio di organizzazione istituzionale che propongo abbisognerebbe di alcune puntualizzazioni soprattutto in relazione al ruolo e alle caratteristiche del centro del sistema universitario, la cui funzione strategica necessiterebbe di: un sistema di valutazione e monitoraggio stabile e professionalizzato, capace di svolgere le proprie funzioni in modo celere, efficace ed altamente legittimato; un attore che rappresenti in modo inequivocabile gli interessi delle istituzioni universitarie; un apparato ministeriale altamente professionalizzato capace di supportare continuativamente l’attività di indirizzo e programmazione del ministro.

Ma, prima di tutto, bisogna avere il coraggio di aggredire il feticcio «democraticista» sul quale si fonda il sistema di governo degli atenei. Se si andasse in nella direzione qui proposta, si consentirebbe alle università di poter essere veramente responsabili e, al tempo stesso, si potrebbe superare altre impasse che, storicamente, caratterizzano il sistema universitario in relazione, soprattutto alla didattica e al personale docente.

Rimodellando, infatti, sulla base delle linee appena tracciate gli assetti istituzionali della governance del sistema universitario italiano si metterebbe in grado tutti gli attori di giocare in modo chiaro e trasparente la propria partita. Al tempo stesso, verrebbero minate le basi storiche e funzionali che limitano l’autonomia sostantiva e procedurale delle università su due elementi essenziali: la gestione del personale e gli ordinamenti didattici.

Un ateneo autonomo e responsabile dovrebbe avere la possibilità di usare nel modo più libero possibile uno strumento essenziale per il proprio funzionamento come la gestione del personale. Da questa prospettiva, il secolare dibattito sui concorsi universitari si scioglie come neve al sole e dimostra tutta la sua nefasta inutilità. Se una università è autonoma e responsabile deve potersi scegliere i docenti che vuole e deve poterli premiare, promuovendoli, se lo ritiene opportuno (raramente si riflette sul fatto che per promuovere un proprio valido docente al rango superiore un ateneo debba bandire un concorso nazionale ovvero aspettare che il proprio docente riesca a conquistarsi un’idoneità nella lotteria concorsuale). Se il «centro» del sistema è capace di fare il suo mestiere, i singoli atenei faranno politiche del personale conformi alle proprie possibilità e ai propri obbiettivi istituzionali. In ultimo, gli atenei hanno il diritto di essere i datori di lavoro dei propri docenti: il meccanismo del concorso pubblico, che sia locale o nazionale, e lo status giuspubblicistico dei docenti fa sì che il datore di lavoro dei docenti universitari sia una specie di ambigua ed evanescente entità; il che, di fatto, rafforza il pericolosi convincimento che il docente universitario sia una specie di libero professionista «pubblico», invece che un formatore dal quale dipende il capitale umano, e quindi il futuro, della nostra società.

di Giliberto Capano
7 apr 05


Fonte: www.governareper.it




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