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«Un orrore non può giustificarne un altro» - domenica 14 dicembre 2003 at 12:36

Venezia, convegno del Prc sulle "foibe". Bertinotti: «Serve una riflessione radicale»
«Un orrore non può giustificarne un altro»

Venezia. Per lungo tempo la tesi che equipara le foibe agli eccidi nazisti, i barbari slavo-comunisti ai criminali tedeschi, ha rappresentato una immagine dominante dell'argomento. Non solo: ha finito con il mettere in ombra, almeno nel senso comune, quanto di meglio la ricerca storiografica accreditata ha prodotto nel campo. Nasce così l'idea che sugli avvenimenti accaduti al confino orientale tra il '43 e il '45, sia calata una rimozione di lunga data, nonostante esistano studi storici dotati di rigore. Un destino di visibilità è invece toccato a una lettura propagandistica, con un netto marchio di destra, che ha utilizzato le foibe sia come emblema della barbarie slavo-comunista (etnicamente estranea alla cultura occidentale) sia come contrappeso al fascismo.
E' possibile oggi uscire da questo revisionismo storiografico e politico? Da questa domanda ha preso avvio la giornata di discussione tra storici, scrittori e giornalisti del convegno "La guerra è orrore. Le foibe tra fascismo, guerra e resistenza" - organizzato ieri da Rifondazione comunista a Venezia. «La nostra presenza qui - ha spiegato Fausto Bertinotti nella conclusione dei lavori - non è usuale. La questione delle foibe va affrontata, da un lato, con i canoni e il rigore della ricerca storica, dall'altro, con una riflessione politica radicale».

Oggi non è più in discussione il carattere sempre attuale della resistenza, «unica religione civile». Ma l'opposizione e la differenza dal fascismo non può essere solo di grado, «non basta dire che il fascismo ha fatto più vittime, occorre ribadire invece la differenza qualitativa dell'antifascismo». Ed ecco perché, in questa fase attuale dominata da guerra e terrorismo, è necessario indagare criticamente la nostra storia, per scoprire le ragioni che l'hanno fatta deviare dall'istanza di liberazione originariamente intrinseca al comunismo. In questo scenario, dunque, vanno studiati eventi come le foibe, «circoscritti, limitati, ma comunque drammatici».

Non si tratta di relegare la vicenda a «semplice contabilità dei morti» - tesi sostenuta con forza da Lidia Menapace, giornalista e partigiana. Finché si rimane nel calcolo delle vittime non si esce dal circolo vizioso: o si spingono in alto i numeri per legittimare la tesi del genocidio culturale oppure si rivedono al ribasso per negare, in sostanza, i fatti. Il problema è che di fronte alla brutalità del fascismo «abbiamo sviluppato una retorica, una lettura angelica della nostra storia, arrivando persino a una visione negazionista dei mali da noi prodotti», prosegue ancora il segretario di Rifondazione. Tra le cause delle foibe c'è senz'altro il furore popolare, il riscatto dalle persecuzioni attuate dal fascismo sulle popolazioni slave. Ma, oltre ad essa, «non riesco a non vedere anche una volontà politica organizzata che mirava alla distruzione del nemico». Un orrore non può giustificarne un altro.

Se questa è la chiave politica di lettura, altre esigenze vengono poste dalla ricerca storiografica, che non può rinunciare né alle analisi "contabili" dei morti, né ai nessi dei fenomeni nel tempo, secondo il prima e il poi. Lo sostiene lo storico Giacomo Scotti, autore della relazione "Le foibe fasciste che nessuno ricorda", rievocando una lunga lista di esecuzioni, deportazioni e violenze commesse nei Balcani da nazisti e fascisti: «Questo non giustifica le foibe, ma la verità va detta per intera». E della necessità di «smentire chi manipola la realtà e aumenta i numeri» parla anche Predrag Matvejevic, docente all'università La Sapienza di Roma. Cifre che rendono la nuda testimonianza di quelle «pulizie etniche in Istria e nei Balcani» ricostruite da Inoslav Besker (università di Zagabria). Solo dopo questo percorso concentrico si può mettere a fuoco la vicenda della «frontiera orientale» come dimostra Joze Pirjevec, storico all'università di Trieste. «Si tratta di un esercito jugoslavo ben strutturato e ben organizzato da tutti i punti di vista - ha detto lo studioso - che non si abbandona in maniera endemica alla vendetta, ma cerca soprattutto di eliminare coloro che considera in qualche maniera pericolosi. Questo ovviamente non significa che non ci siano state anche delle vendette personali, però, a mio parere, è significativa la testimonianza del capo della polizia segreta di Trieste che nelle sue memorie, piuttoste lacunose per la verità, dice che in quel periodo l'esercito e la polizia segreta hanno dovuto tenere a bada i triestini affinché non si vendicassero troppo. Vorrei sottolineare che fra questi triestini non c'erano solo gli sloveni, ma anche operai italiani che, per ragioni ideologiche, si erano schierati con i partigiani di Tito, spinti dalla voglia di vendetta sul fascista. Bisognava perciò tenere a bada l'ira popolare, il che naturalmente non significa che le cose si siano svolte in modo "regolare", se non nel senso che, per portare via alcune migliaia di persone è necessaria una struttura organizzativa piuttosto efficiente: queste persone dovevano essere rastrellate, portate in qualche carcere e poi messi su camion che solo l'esercito poteva avere».

Tonino Bucci
(14 dicembre 2003)


Fonte: Liberazione online



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