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«Fa troppo caldo per lavorare» - giovedì 7 agosto 2003 at 12:01

«Fa troppo caldo per lavorare». La provocazione non viene da qualche estremista dell'antilavoro ma da un quotidiano di sinistra liberale come il francese Libération che a questa suggestiva idea dedica la copertina. Il punto di partenza, comune a tutta l'Europa, è il caldo di questi giorni, eccessivo per le nostre latitudini tanto da far pensare a un cambiamento climatico strutturale. Qualche giorno fa il presidente della Società Meteorologica Italiana ha sorvolato le Alpi in aereo per controllare lo stato di salute dei ghiacciai italiani prima scoprendo che tra prima e dopo l'estate sono scomparsi milioni di metri cubi di ghiaccio.
Un caldo così soffocante e inusitato non può non avere effetti sui posti di lavoro, quelli dove si passa la maggiorparte del proprio tempo. Ma i luoghi di lavoro sono attrezzati per questo cambio climatico? e che condizioni sono costretti ad afffrontare i lavoratori e le lavoratrici? Non stiamo parlando dell'andamento delle abitudini o delle tendenze della società, italiana o europea, ma di una situazione che s'intreccia fortemente con l'attuale condizione del lavoro e quindi con forti implicazioni economiche e sindacali. Fa più caldo, insomma, ma chi ne paga il prezzo?


Il sudore del lavoro
L'inchiesta del quotidiano francese enumera alcuni casi facilmente riscontrabili anche in Italia. I lavori all'aperto, ad esempio, che in estate si moltiplicano esponenzialmente (basta fare un giro sulla Salerno-Reggio Calabria...) e che mettono a dura prova gli operai del settore. Installare dei cavi di gomma può essere infernale sia per la temperatura esterna che per il calore che raggiunge la gomma stessa. Così come il casco di sicurezza sui cantieri edili, anch'essi esposti a una gradazione insostenibile, può diventare uno strumento di tortura. E che dire di cucine e ristoranti: làddove la temperatura raggiunge di norma i 30-35 gradi si possono sfiorare anche i 50° e se l'impianto di areazione non c'è o non funziona si può incappare in forti guai. Discorso analogo per le metropolitane, generalmente prive di condionamento d'aria. Ne soffrono duramente i passeggeri, come registrano abitualmente le cronache quotidiane ma i lavoratori, che ci viaggiano per sei-otto ore, possono rischiare l'impazzimento.

Di casi come questi se ne possono elencare a decine compresi quelli in cui manca un adeguato rifornimento d'acqua. D'estate si possono perdere fino a 12 litri di sudore in una giornata e quindi occorre bere frequentemente, come spiegano tutti i medici. Ma spesso nei posti di lavoro manca l'acqua e si è costretti a portarla con sé con un costo che è solo a carico di chi lavora.


Il ruolo della 626
Il problema è affrontato solo parzialmente dalla legge che regola la sicurezza sui posti di lavoro, la 626, che pura indica alcune norme di base (vedi scheda in pagina). «La legge non può regolare ogni aspetto del problema - ci dice Paola Agnello Modica della segreteria nazionale Cgil e responsabile della 626 - il microclima è un punto decisivo che va affrontato direttamente sul posto di lavoro, quindi anche con una contrattazione adeguata». E in effetti qualche vicenda emblematica si è già potuta sviluppare. La Fiom ha ottenuto una pausa più lunga alla Piaggio proprio per far fronte all'eccessivo caldo; lo scorso giugno, i dipendenti di una filiale dell'Unicredito di Rimini hanno scioperato per denunciare la rottura del sistema di condizionamento d'aria; alla Fao, a Roma, prima dell'introduzione dell'aria condizionata una norma stabiliva che in caso di temperature superiori ai 35° si potesse lasciare il lavoro alle 15; anche al consiglio regionale della Lombardia circa 320 dipendenti hanno potuto lasciare il lavoro per via del caldo e lo stesso ha fatto la Procura della Repubblica di Napoli concedendo analoga autorizzazione a 600 impiegati.


Tempi di vita, tempi di lavoro
«Ma non sempre si ha un sindacato a cui rivolgersi o si è in condizioni di affermare il diritto a lavorare in salute, che è il fondamentale dei diritti» aggiunge Agnello Modica. Il problema delle forti temperature sui posti di lavoro, quindi, si connette alla parcellizzazione e alla precarizzazione del lavoro. «Cosa succederà - dice anche la segretaria Cgil - quando ci sarà lo staff-leasing o il lavoro a chiamata previsti dalla legge 30, la cosiddetta "Biagi"? Oppure, che cosa possono fare i braccianti immigrati che raccolgono i pomodori sotto un sole cocente nelle zone della Campania o della Puglia?». Se spostiamo poi l'attenzione fuori dall'Europa ci accorgiamo che il problema acquista ben altra scala e altri numeri. In India, denuncia Vandana Shiva, a causa della trasformazione delle coltivazioni tradizionali in colture intensive si costringono i contadini a lavorare in orari inusitati e per loro impensabili e questo ha provocato centinaia di morti.

Il troppo caldo è dunque solo una spia, l'evidenziazione di un problema che ha valenza più generale. Nel quale, ad esempio, rientra perfettamente la questione dei tempi di vita e di lavoro. Non a caso nell'inchiesta francese ci si chiede se «la legislazione non debba tener conto di un cambiamento strutturale del clima adeguandosi a quella». Ma questo passa per una ulteriore flessibilizzazione degli orari - magari lavorando la mattina presto e la sera tardi - o per una più generalizzata riduzione degli stessi? La domanda, oggi derubricata dall'agenda politica europea, torna prepotentemente d'attualità ogni volta che ci si addentra nella reale condizione del lavoro. «In realtà - ci spiega ancora Agnello Modica - il governo Berlusconi ha allungato l'orario di lavoro con il decreto legislativo 66 dove si dice che ogni lavoratore «ha diritto ad almeno 11 ore di riposo» sulle 24 che compongono una giornata. Quindi in astratto può lavorare fino a 13 ore al giorno, mentre la legge del 1923 stabiliva l'orario di lavoro giornaliero in otto ore più due di straordinario».

E invece, per tornare al problema del troppo caldo, la città di Berlino, che ha uno statuto autonomo, ha concesso ai suoi dipendenti uno «sciopero tecnico» liberando i lavoratori in caso di temperature superiori ai 29°. Mentre in Spagna in alcune multinazionali - come la Ibm o la Bull - il tradizionale orario 9-18 è stato portato a 8-15 per utilizzare la "siesta" come rimedio alla calura estiva. Lavorare meno, quindi, non solo per lavorare tutti ma anche per sudare tutti un po' meno.
Salvatore Cannavò
(giovedì 7 agosto 2003)

Fonte: Liberazione online



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