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La leva per un nuovo modello di sviluppo - domenica 18 maggio 2003 at 20:40
Estensione dell'articolo 18 e piccola industria: il limite dei 15 dipendenti specchio di una realtà produttiva ormai superata
La leva per un nuovo modello di sviluppo

La contrarietà al referendum manifestata dalla sinistra moderata (dalla Margherita a Fassino e Cofferati) viene motivata con la necessità di tutelare le piccole imprese, altrimenti minacciate di crisi e declino. La piccola impresa è vista come un soggetto fragile e sostanzialmente estraneo ai meccanismi di accumulazione del capitale industriale e, pertanto, bisognosa di particolari agevolazioni per ridurre i costi del lavoro. Tali argomentazioni sono prive di qualsiasi fondamento economico e nascondono una profonda incomprensione dei problemi economici reali dell'Italia.
Il limite quantitativo dei 15 dipendenti, infatti, è oggi del tutto arbitrario e privo di qualsiasi motivazione logica. Quando lo Statuto dei Lavoratori fu approvato, nel 1970, la fissazione della soglia dei 15 dipendenti era lo specchio della realtà produttiva italiana degli anni Cinquanta e Sessanta. Il modello produttivo era ancora quello fordista, con una forte concentrazione della produzione industriale in grandi stabilimenti e in grandi imprese. Le piccole imprese rappresentavano un residuo di precedenti modi di produzione, avevano un livello di competitività assai basso, si concentravano nei settori non esposti alla concorrenza estera ed erano prevalentemente localizzate nelle regioni meno sviluppate del Paese. Il cuore del sistema industriale italiano negli anni del boom economico era localizzato in massima parte nel Triangolo industriale, dove operavano i grandi stabilimenti per la produzione di massa. La soglia dei 15 dipendenti poteva allora essere considerata come transitoria e comunque di importanza secondaria.

Le cose, come si sa, sono andate diversamente. A partire dalla seconda metà degli anni Settanta il sistema industriale italiano è stato investito da un possente processo di decentramento produttivo, sia in termini geografici che in termini dimensionali, provocato dalla ribellione operaia alle forme di comando fordista nella grande impresa. Si affermò il sistema dell'appalto e della subfornitura, reso possibile anche dalle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione. La piccola impresa, potendo contare su una maggiore flessibilità organizzativa, cessò di essere una forma residuale, destinata alla scomparsa, e assunse un ruolo decisivo nella nuova configurazione produttiva. Il decollo industriale dell'area Nec (Nord-Est-Centro) si basò su questi processi e si impose come nuovo motore della crescita.

Fattore determinante di queste trasformazioni furono proprio i minori diritti goduti dai lavoratori delle piccole imprese. Ciò che prima era considerato come un sintomo di statica arcaicità, divenne invece uno dei fattori più dinamici della ristrutturazione dell'apparato produttivo nazionale. L'assenza di alcuni diritti elementari per i lavoratori consentì al sistema delle piccole imprese di sfruttare a pieno le nuove opportunità di mercato, attraverso una gestione discrezionale della manodopera, una riduzione dei costi complessivi del lavoro e un maggiore controllo delle lotte operaie.

Dopo queste trasformazioni radicali il sistema della piccola impresa non può più essere considerato come un residuo del passato, sostanzialmente estraneo e marginale rispetto al meccanismo dell'accumulazione, che dovrebbe quindi essere paternalisticamente protetto. Al contrario, la piccola e media impresa è un elemento centrale delle nuove forme produttive, perfettamente integrato e funzionale, sia pure attraverso relazioni di subordinazione e di assoggettamento, alla grande impresa nazionale e transnazionale. Per queste ragioni è assolutamente privo di senso economico ribadire oggi le stesse argomentazioni che 35 anni fa portarono ad istituire la soglia dei 15 dipendenti. Oggi, semmai, il problema è esattamente l'opposto di quello che si poneva allora.

E' infatti universalmente riconosciuto che la principale difficoltà del sistema industriale italiano è costituita da una struttura dimensionale delle imprese troppo piccola e frammentata. Questa caratteristica produce una carenza strutturale di innovazione, di investimenti e di ricerca e sviluppo, che mina la competitività dei prodotti italiani sui mercati globali. La specializzazione produttiva dell'Italia nella fascia medio-bassa della divisione internazionale del lavoro deriva in larga misura dalla struttura industriale basata sulla piccola e media impresa. L'obiettivo di un aumento della dimensione media delle imprese è esplicitamente posto come essenziale sia dalla Confindustria, sia dal Governo e dalla Banca d'Italia. Affinché un processo di consolidamento industriale possa realizzarsi è però necessario eliminare gli incentivi strutturali alla frammentazione aziendale, primo fra tutti quello relativo alla maggiore discrezionalità nell'uso della forza-lavoro. Questo processo di livellamento delle condizioni di competitività tra piccola e grande impresa ha già trovato completa realizzazione, a tutto danno dei lavoratori, sia sul piano della dinamica salariale, con il progressivo deperimento dello strumento della contrattazione collettiva, sia sul piano della libertà imprenditoriale nella gestione della forza-lavoro in entrata, con la liberalizzazione dei meccanismi di assunzione, sia sul piano dell'utilizzo della manodopera all'interno del processo produttivo, con la flessibilità delle prestazioni lavorative. L'ultimo passo, l'anello ancora mancante, è quello della libertà di licenziamento, della piena discrezionalità sui flussi di forza-lavoro in uscita.

In questo scenario si scontrano due ipotesi contrapposte di modello economico. Da un lato, Confindustria e Governo puntano ad estendere i diritti della piccola impresa in materia di gestione della forza-lavoro a tutte le imprese. E' questa una ricetta coerente, ispirata ad un neoliberismo integrale, secondo cui il massimo di efficienza economica sarebbe raggiunto quando il lavoro risultasse completamente mercificato, reso assolutamente identico e indifferenziato rispetto a qualunque altro input del processo produttivo (macchinari, materie prime, beni intermedi). E' la presenza nella produzione di un fattore dotato di soggettività, e quindi portatore di diritti, il lavoro, ad inficiare la piena razionalità del processo economico. In questa visione, la strada del rilancio della produzione industriale rimane, però, sempre quella di una competitività di prezzo, basata sulla compressione dei costi complessivi del lavoro.

Dall'altro lato, le forze che hanno promosso il referendum puntano, viceversa, ad estendere i diritti dei lavoratori a tutte le imprese. Anche questa è una prospettiva coerente sul piano economico, dichiaratamente antiliberista, che innescherebbe processi di profonda riqualificazione del sistema industriale italiano, orientati sulla promozione della qualità tecnologica, piuttosto che sul contenimento dei costi. Il rilancio dell'apparato produttivo italiano avverrebbe sulla base dell'imposizione di una nuova serie di vincoli interni alla produzione, determinati da più estesi diritti del lavoro, che richiederebbero un balzo in avanti in termini di innovazione e di qualità. In questa ipotesi, un nuovo ruolo pubblico nella produzione industriale si accompagnerebbe a più estese garanzie per i lavoratori. Nuove rigidità nel sistema proprietario, attraverso la presenza pubblica, e nel lavoro, attraverso maggiori diritti, come strumenti di un nuovo modello di sviluppo basato sulla qualità della produzione. La stessa funzione della piccola impresa dovrebbe mutare radicalmente, divenendo uno strumento di propulsione dell'innovazione in nuovi mercati emergenti, di dimensioni ancora insufficienti per la produzione di massa. La piccola impresa andrebbe sostenuta non negando i diritti del lavoro e così schiacciandola in una pura competitività di prezzo senza prospettive, ma attraverso mirate politiche del credito, della formazione e dell'innovazione. Soltanto in questo modo, la piccola impresa potrebbe acquistare una reale autonomia di mercato e liberarsi dai vincoli di subordinazione alla grande impresa. E' questo un progetto estremamente serio e realistico di governo alternativo dell'economia.

Diritti dell'impresa (cioè comando del capitale) contro diritti dei lavoratori (cioè autonomia del lavoro), come fondamento del modello di sviluppo economico e sociale: è questo l'oggetto dello scontro referendario. Chi, come la sinistra moderata, si attarda a ripetere vecchie e stantie argomentazioni contro il referendum è fuori della realtà, prigioniero di un passato ormai morto, e si mostra del tutto incapace di offrire una reale alternativa per il governo del Paese.

Andrea Ricci

Fonte: Liberazione online del 14/05/2003

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Articolo 18 Legge 300 del 20 maggio 1970 Statuto dei lavoratori

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