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Questo Primo Maggio Verso il Si del 15 giugno - giovedì 1 maggio 2003 at 12:01
Primo maggio, festa del lavoro, ma i lavoratori non hanno da festeggiare. Ancora una volta, il salario parla di una condizione più generale, della reale condizione di classe.
Proprio in questi giorni, l'Istat conferma che l'aumento delle retribuzioni (più 2,1%) è inferiore all'aumento dell'inflazione (più 2,8%). Cioè, i salari hanno perso ancora potere d'acquisto. Una notizia ormai di routine. Da quando, molti anni or sono, la scala mobile è stata abolita - e sostituita da una finzione giuridica, da quella vera e propria bugia di Stato che si chiama "inflazione programmata"- i salari non hanno più vere garanzie. Il governo decide per decreto il tasso di inflazione, ma i prezzi, evidentemente, non leggono i decreti mentre stipendi e retribuzioni rimangono al palo.

Mettere a confronto la dinamica dell'aumento delle retribuzioni reali in Italia e nei principali Paesi industrializzati è illuminante: fatte uguali a 100 le retribuzioni nel 1997, nel 2002 l'Italia è l'unico Paese che ha un saldo negativo (nel 2002 siamo a quota 97 mentre l'area dell'Euro si attesta, come media, intorno a 105). Siamo, in Italia, dentro un processo di progressiva diminuzione dell'incidenza delle retribuzioni sul complesso della ricchezza prodotta a tutto vantaggio del profitto e della rendita. Negli ultimi 20 anni, la quota del monte salari sul Pil è diminuita di quasi il 10% e nell'ultimo decennio, mentre la produttività è cresciuta mediamente del 2% all'anno e l'inflazione di una media di circa il 4%, le retribuzioni nette sono diminuite di circa il 5%.

Ma le cose vanno ancora peggio di quanto questi dati dicano.

L'aumento dell'inflazione segnalata dalle paludate statistiche dell'Istat non rende chiara la reale incidenza di tali aumenti sui redditi popolari. Non si tratta solo del problema della composizione del paniere su cui viene calcolata l'inflazione, vi è la diversa incidenza degli aumenti dei beni di prima necessità in relazione alle concrete condizioni sociali.

D'altra parte, i dati sull'aumento della povertà (quella ufficiale, segnalata dalle statistiche) squarciano il velo di una realtà spesso oscurata: il fenomeno comprende non più solo fasce definite marginali (anziani, disoccupati, famiglie monoparentali) ma lambisce porzioni sempre più grandi di lavoro dipendente.

Dal lato dei diritti, le cose non vanno certo meglio.

Le destre in Parlamento hanno approvato una legge delega sul lavoro che estende al massimo le varie forme di precarizzazione e privatizza il collocamento, in pratica istituzionalizza il caporalato. Per non parlare, poi, del dramma dei morti e dei feriti sul lavoro, che rimane come una delle emergenze nazionali. Riemerge addirittura la piaga dello sfruttamento del lavoro minorile.

Intanto, per la più grande categoria dei lavoratori dell'industria, si profila il rischio di un accordo separato che esclude il sindacato maggiormente rappresentativo, la Fiom. Si ripropone in forma acutizzata il nodo irrisolto della democrazia sindacale, di un meccanismo formale di verifica degli accordi. Diventa così possibile firmare un contratto che ha valore "universale", che è cioè erga omnes, fuori e contro l'organizzazione sindacale che ha più iscritti di tutte le altre messe insieme e senza consentire ai lavoratori di dire che cosa ne pensano. Di più. Diventa lecito impedire o bloccare qualsiasi consultazione democratica, che determinerebbe la bocciatura senza appello di tale accordo.

La strada imboccata è a senso unico: porta dritti all'abolizione del contratto nazionale di lavoro.

Non erano certo queste le magnifiche sorti promesse dalla rivoluzione restauratrice del neoliberismo. Non c'è progresso sociale e civile ma non c'è neanche lo sviluppo: la crisi si è ormai affacciata prepotente anche nelle economie dei Paesi più industrializzati. A questa crisi, le classi dirigenti reagiscono con un inasprimento delle medesime politiche.

L'estensione della precarietà è la cifra che informa questa seconda fase dura della globalizzazione capitalistica. Guerra e iperliberismo sono le due facce della medesima medaglia. E' finito il dopoguerra, dal punto di vista delle relazioni internazionali, e da quello delle politiche sociali. L'unilateralismo Usa sostituisce l'Onu, nato sul patto tra i vincitori della seconda guerra mondiale. Sul piano sociale si abbatte il così chiamato "compromesso socialdemocratico" del Welfare State. La globalizzazione elegge, così, il modello sociale statunitense a suo modello funzionale, mentre esso stesso non riesce a nascondere la propria crisi.

Non ci sono più nicchie protette, né aristocrazie operaie del Nord del mondo che possono proteggersi chiudendosi o peggio contro "i dannati" dei popoli del Sud. Oggi, la competizione globale mette tutti nello stesso carro e porta nella crisi assieme le classi operaie del Nord e le masse urbane delle bidonville latinoamericane, africane e asiatiche, i contadini delle coltivazioni di qualità nel cuore del continente europeo e le popolazioni indigene.

Per questa ragione, per il suo carattere alternativo ed unificante su scala mondiale, è così forte il nuovo movimento di contestazione della globalizzazione neoliberista.

Nel nostro Paese, l'attacco al 25 aprile a e alla Costituzione va di pari passo a quello ai diritti del lavoro e alla destrutturazione dello stato sociale.

Ma anche qui, sarebbe sbagliato non cogliere una novità, un vero e proprio salto nella politica delle destre. Possiamo dire che si è esaurita la fase dell'ambiguità e la strizzata d'occhio populista. Si esauriscono i margini di mediazione: l'attacco alla condizioni di lavoro, alla previdenza, ai diritti sociali (in primo luogo la sanità e l'istruzione pubblica) si fanno diretti e frontali.

E' del tutto inefficacie una risposta all'attacco delle destre che si fondi solo sulla difesa dell'esistente. Ciò che l'instabilità prodotta dalle politiche neoliberiste (come dalla guerra) destruttura non lo puoi né difendere, né ricostituire così com'è.

Il caso dell'articolo 18 è esemplare.

Le destre vogliono cancellare l'articolo 18. La foglia di fico della modifica parziale non regge: è solo il primo passo. Se tu inserisci una deroga (chi supera la soglia dei 15 non applica il diritto alla reintegra) prepari la strada per estenderla a tutti.

Il vero scontro, quindi, è tra la cancellazione del diritto o la sua estensione.

Perché in futuro non si reggerebbe la differenza tra aziende con uguale numero di dipendenti e diverse tutele. D'altra parte, la recente storia del Paese lo insegna. Non cancellarono subito la scala mobile. Cominciarono con abolire quattro punti. Vinsero e l'esito fu segnato: la scala mobile è stata cancellata.

Così è oggi. Non difendi l'articolo 18 dicendo solo no alle modifiche del governo e portando in piazza milioni di persone. Il governo e il Parlamento vanno avanti lo stesso con l'accordo di parte dei sindacati e di tutti i padroni. Tu protesti e poi perdi.

Il referendum, quindi, risponde al fondamentale problema dell'efficacia dell'azione politica, problema che interroga tutti noi, le varie forze delle sinistre, le organizzazioni dei lavoratori, i movimenti.

Il referendum, diversamente da quello sulla scala mobile degli anni 80, ha una forza sul piano dei rapporti sociali e una difficoltà su quella degli schieramenti politici.

Sul piano sociale, è cambiato qualcosa di fondo: negli anni 80, la rivoluzione restauratrice del neoliberismo aveva la forza propulsiva dell'annuncio di un'onda lunga che avrebbe cancellato diritti ma assicurato benessere e sviluppo. Oggi, dopo vent'anni, queste promesse sono state falsificate dalla realtà ed è maturata una nuova critica sull'onda dell'affacciarsi impetuoso di un nuovo movimento.

Sul piano politico, al contrario, le posizioni che appaiono maggioritarie nel centro sinistra, in particolare nei Ds, sembrano voler proporre una diserzione di massa. Il maggior partito della sinistra sembra quindi avere un orientamento prevalente che si accoda a quanti hanno firmato il Patto per l'Italia, da cui ha origine l'attacco del governo all'articolo 18.

Anche qui, qualcosa di profondo è cambiato. Il più grande sindacato italiano, la Cgil, si orienta a sostenere le ragioni del si, così come la più grande organizzazione della società civile progressista, l'Arci, che già ha assunto una formale decisione nel medesimo senso. Lo schieramento a favore del referendum, già ampio e articolato, si arricchisce ogni giorno. Per utilizzare un'espressione spesso usata dalla storia politica dalla quale proveniamo: nello schieramento a favore dei referendum che estendono i diritti del lavoro e quelli della salute e dell'ambiente, c'è l'espressione visibile di un'altra Italia che è scesa in campo.

Stare in mezzo non si può a meno di abdicare al ruolo dovuto a qualsiasi forza politica di scegliere tra due opzioni in campo tra loro alternative. Nel caso del referendum, infatti, non scegliere significa schierarsi con il no, assieme al governo Berlusconi e alla Confindustria che, infatti, opportunisticamente ancora sono incerti se percorrere la strada dello scontro in campo aperto o puntare sul boicottaggio (ben spalleggiati dall'informazione pubblica).

Questa pulsione suicida di parte della sinistra moderata deriva da un problema politico che la precipitazione del referendum fa esplodere. Il problema si chiama Ulivo. Questa alleanza va in pezzi ogni volta che si affronta un nodo di fondo e ogni volta che un contenuto importante si impone sulla fedeltà di schieramento. Il referendum mette la politica con i piedi per terra: l'alternativa alle politiche neoliberiste e la gabbia dell'Ulivo è stretta anche per quelle forze del centro sinistra che, a partire dai referendum, si propongono di praticare scelte in direzione diversa.

Un'altra Italia è possibile. Ci sono momenti di svolta nella vita di un Paese che segnano il cambio di fase. I referendum possono segnare questo passaggio.

Per questo, il nostro primo maggio, quest'anno si concluderà il 15 giugno.
Fausto Bertinotti

Fonte: Liberazione online

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