Franco Di Giorgi /LA VITA COME ATTESA. NOTA SUL FILM DI CHARLIE KAUFMANN, SYNECDOCHE, NEW YORK
È un preannuncio della morte, e con molta probabilità il manifestarsi della vita stessa, quello in cui le cose cominciano a precipitare rapidamente, a compenetrarsi e a richiamarsi vicendevolmente, ma anche a fluire liberamente, riassumendo così quell'ordine naturale che noi, nascendo e per salvarci, abbiamo obliato imponendo il nostro. È come se esse potessero finalmente affrancarsi dalla klisìa, cioè della deviazione o della giogo che l'elemento antropologico necessariamente comporta, e tornassero alla aklisìa, alla libertà, alla mancanza di impedimenti e di vincoli e all'assoluta non violenza. Già, perché al vuoto non si sfugge. Ogni pléres, ogni pieno è destinato al kénos, al vuoto. Dinanzi al suo emergere e al suo spalancarsi improvviso, peraltro solo apparentemente inatteso, ogni rimedio rivela sempre e con un po' d'angoscia la sua totale impotenza e inutilità. Appunto, la sua vacuità, la sua kénosis. Anche l'ergasía, il lavoro, l'attività che maggiormente contraddistingue il fare dell'uomo e che costituisce il farmaco che egli ha adottato sin dalla sua apparizione contro quell'emergere inquietante, per cercare di sanare, di tamponare con l'essere che essa produce quella inspiegabile ferita, anche l'operosità, dunque, dinanzi a quell'orribile spalancamento può essere ad un tempo anche - e questo è certamente uno dei momenti più insopportabili dell'esistenza - un lavorare a vuoto, una anergasía, una passività, un’inerzia: un fare nulla. Sicché, pare che sia impossibile per l'uomo coprire questa voragine infernale: impossibile colmare e rinchiudere questo Aperto che con un eterno sbadiglio accoglie indifferente ogni cosa, come un'immensa e apeironica cloaca. Dalla sua superficie invisibile (una sorta di velo che oscura la luce e rende più grigio il mondo) i rattoppi, opportunamente approntati dall'attività lavorativa e creativa, scivolano via o saltano sempre, uno dopo l'altro o tutti quanti insieme, come debole stucco su una immensurabile e maleodorante parete muschiosa che inesorabilmente sfiorisce e pian piano si sgretola, si polverizza e infine svanisce sotto l'urgere dell’aria gelida che passa dalle feritoie. Lo stucco non tiene, il bianco dell'intonaco, anche vivacemente dato e colorato, prima si crepa e poi improvvisamente, eppure anche prevedibilmente, solo poco tempo dopo, cede, lasciando così comparire l'inarrestabile muffa pervasiva. Tutto ciò si può cogliere nel film di Charlie Kaufmann, Synecdoche, New York, uscito nelle sale il 19 giugno. La sineddoche è quella figura retorica grazie alla quale il linguaggio rende possibile esprimere con una parola vicendevolmente la parte per il tutto, il singolare per il plurale, il particolare per l'universale. La parola, nel caso di quest'opera cinematografica, è New York, la città particolare con la quale però il regista intende indicare l'intero mondo, l'universo. E se da un canto ogni luogo particolare, ogni tópos, riflette quello che accade a livello universale, nel kósmos, il film dal suo canto si pone il compito di rendere visibile o di rappresentare, attraverso elementi che continuamente si sovrappongono e si confondono, questa riflessione. Raccontare la storia di una singola cosa o di un singolo individuo significa infatti al contempo raccontare la storia universale. L'ente (participio presente) insomma è ente particolare solo perché partecipa nel presente dell'essere universale. Ora, per l'ente-uomo partecipare dell'essere significa essenzialmente ex-sistere, ossia essere ex-posto. Essere esposto a cosa? Alla consunzione determinata dal tempo. E il rapporto fondamentale che l'uomo intrattiene con il tempo è l'attesa. Ecco, il film di Kaufmann, come dice Cristiano Governa su Venerdì di Repubblica (13 giugno), ha come obiettivo principale quello di rappresentare la vita dell'uomo come attesa della morte. E già Platone, nelle Leggi, si era accordo della dualità di questo concetto di attesa (elpís): l'attesa di patire è phóbos, paura, l'attesa di godere è confidenza (thárros). Nel nostro caso l'attesa che la vita comporta è al contempo sia l'oggettivo at-tendere inesorabile verso la morte, verso il baratro e il kénos che ci attendono e ci sogguatano da sempre, sia il soggettivo attendere inteso come prendersi cura di quell'inesorabilità con ogni attività produttiva e creativa possibile al fine di non pensare al nostro destino di esseri sofferenti e mortali, di divergere o comunque di differire, almeno con la mente, quel momento tragico eppure del tutto naturale in cui le cose cominciano a precipitare. E noi con esse. Naturalmente.