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C O N T R O L L A    D I S C U S S I O N E
mimc Inviato - 25/07/2006 : 18:01:58


L’eversione della feudalità, la questione demaniale, l’emersione del latifondo: storia di una vicenda italiana

di Michele Albrizio (29.11.2000)
Fonte: zaleuco

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L’indagine che tenti di spiegare il fenomeno della feudalità, per capire il clima in cui s’instaurò la legge 2 agosto 1806 – emanata da Giuseppe Napoleone, durante il “decennio francese” sulla scorta dei provvedimenti dello stesso tenore già attuati oltralpe, che all’art. 1 recita: “La feudalità, con tutte le sue attribuzioni resta abolita”[1] –, deve anzitutto cercare le origini strutturali dell’istituto per comprenderne a pieno la nascita e soprattutto le mastodontiche difficoltà che si dovettero superare per strappare di mano ai feudatari i «loro» feudi e divellere così, “questo mostro uscito dalle foreste de’ barbari, ed allevato dalla ignoranza e dagli errori di tredici secoli”[2]. In realtà non è da credere che l’eversione della feudalità, in tutti i suoi aspetti – compresi quelli che prelusero le leggi del 1806 – sia stata un fenomeno tale da stravolgere in maniera dirompente il sistema baronale. La nobiltà feudale fu rispettata e la proprietà feudale, originariamente costituita dalla detrazione del demanio universale – accantonati pochi usi civici, e solo poco più importanti appezzamenti, in favore della popolazione dei Comuni – passò quasi tutta in libero dominio ai feudatari.

I baroni furono privati in realtà della giurisdizione, dei diritti proibitivi e di alcune prerogative fiscali. Ebbero in libera proprietà quei terreni del feudo – o buona parte di essi – senza contestazione goduti e amministrati in maniera esclusiva (difese legittimamente costituite, terreni chiusi e migliorati). Continuarono a riscuotere decime e censi, ma quasi tutte le prestazioni divennero redimibili e talora, giudicate esorbitanti o arbitrarie, furono ridotte o estinte. In tale maniera soprattutto, fu creata – o per lo meno si volle creare, ma senza esito positivo – una piccola e media proprietà contadina interamente libera o facilmente riscattabile.


I popoli germanici non erano, al contrario di quel che si crede esclusivamente nomadi, per tal motivo il loro stanziamento in Gallia non fu tale da far scomparire del tutto la proprietà individuale. Anzi, loro stessi ad essa ambivano con ogni mezzo, tanto tramite normali atti d’acquisto, quanto con l’occupazione, forzata, delle terre vacanti. Così, non fu la divisione delle terre, anche in seguito alle prime invasioni, la causa – come alcuni vorrebbero – di quell’istituzione politica detta “feudo”. In realtà l’istituto del feudo è frutto d’importazione anche se la dottrina appare divisa circa la sua attribuzione.

L’etimologia del vocabolo non è certa. Alcuni lo fanno derivare da foedere o foeda, ossia «stringere un’alleanza», «patto»; altri lo ricavano dalla voce barbara fe-oden («possessione mercenaria»). Comunque sia, è certo che per esso s’intende nelle province dell’Italia Meridionale, il beneficio elargito dal Principe – concedente una terra, una città, un castello – con l’obbligo per il beneficiario al servizio militare ed alla fedeltà al Principe stesso.

Quando i Longobardi invasero l’Italia introdussero, nei territori conquistati, il “feudo” che poi venne trapiantato nel ducato di Benevento, che, ai tempi di Ruggero (1130-1154), copriva quasi l’intero regno di Napoli. Qui dapprima i feudi erano amovibili, ma successivamente passarono, de iure Longobardorum, ai successori maschi dei concessionari.

I feudatari vennero identificati con titoli diversi: presso i Longobardi furono Duchi; presso i Franchi Conti; e presso i Normanni Baroni. Questa situazione conobbe trapassi di monarchie, vide il succedersi di dominazioni, ma sostanzialmente si protrasse ancora per altri dieci secoli.

La ragione di questa floridezza, fu nel contempo ciò che determinò il sorgere dell’istituzione: politicamente i feudi erano utilissimi per i sovrani, che, distribuendo terre, guadagnavano l’appoggio, bellum gerendi, di uomini leali, all’occorrenza in grado di intervenire con armi e denari. In questo modo spesso la feudalità finiva per contemperarsi con la società. “Il feudalismo è filtrato in tutti gli ordini sociali e persino nella famiglia… il feudalismo è nelle idee, è in tutto il mondo intellettuale… il feudalismo è persino nel linguaggio… il feudalismo è nel mondo degli affetti… anche i bassifondi sono saturi di miasmi feudali[3]”.

Caduto il regno longobardico, la feudalità resistette nelle nostre province sia per il persistere del Ducato di Benevento, che, e soprattutto ad opera dei Normanni. Le concessioni feudali furono il loro mezzo per conservare la conquista graduale del territorio che venivano facendo. Pertanto quando cominciò la loro monarchia, nel secolo XII, la feudalità era già largamente sviluppata, con tutti i suoi mali. “Gli elementi diversi e cozzanti, che preesistevano, erano province bizantine, emirati saraceni, principati e contee longobarde, città libere o quasi libere, e leggi e culture e costumanze e linguaggi rispondenti a questa varietà di popoli e di dominazioni, e forze e debolezze da piegare e da adoperare, l’amministrazione bizantina e quella musulmana, il frazionamento già quasi feudale dei possessi e dei dominii di gran parte del paese, le milizie longobardiche e quelle delle città libere e le saraceniche, la cultura greca e araba e la latina, i commerci delle città marinare”[4]. Nel tempo, come naturale, il sistema rilevò tutta la sua pericolosità, ma proprio perché la feudalità era stata il mezzo per consolidare la conquista, la sua distruzione ne avrebbe minato l’esistenza facendo dei baroni altrettanti nemici. Fu per tale ragione che Ruggiero, allo scopo di reprimere l’anarchia feudale, ordinò a tutti i baroni di produrre i loro titoli di concessione allo scopo di ottenere la sua ratificazione. Durante la monarchia la funzione militare dell’ordinamento feudale, che tanta parte aveva avuto nelle fasi della conquista, venne meno e ad essa finì per sovrapporsi il binomio feudo e comune. “A partire dai normanni feudo e comune nel Mezzogiorno divengono due realtà che hanno bisogno della legittimazione regia, non vivono di luce propria. L’introduzione del regime feudale ad opera dei normanni si cala in un contesto caratterizzato dall’assenza del comune come città-stato. Il comune classico italiano equivale ad una forma di repubblica. Il comune meridionale, esemplificabile nei ducati campani di Napoli, Gaeta, Amalfi, Sorrento, si caratterizza invece per la sostanza dinastica e assolutistica del potere. Nel comune classico il rapporto città-campagna è favorevole alla città. Nel comune meridionale il rapporto città-campagna è sfavorevole alla città. I comuni classici sono realtà politiche autonome. L’organizzazione comunale meridionale è invece il prodotto dello Stato monarchico dai Normanni fino all’età moderna. Queste differenze condizioneranno nel Mezzogiorno la storia del rapporto fra Monarchia, feudalità e città sia nel Basso Medioevo sia nella prima età moderna”[5].

Dopo la prima introduzione ad opera dei Normanni però il feudo permase in uno stato di quiescenza. Nel Mezzogiorno i feudatari non acquistarono la giurisdizione che sotto gli Aragonesi, da Alfonso I, detto il Magnanimo. Né sotto i Normanni, né sotto gli Svevi, né sotto gli Angioini i baroni ebbero giurisdizione sugli uomini del feudo.

Il secolo dei lumi fu anticipato e preparato da una serie di eventi destinati ad essere prologo indispensabile per i fenomeni della Francia rivoluzionaria (1789). Nel 1776 negli Stati Uniti si ebbe la Dichiarazione d’Indipendenza dalla madrepatria inglese, secondo molti preparata dagli scritti del maggiore studioso liberale del tempo, Montesquieu, le cui opere vennero ritenute addirittura profetiche[6].

Lo stravolgimento dell’ordine costituito condusse all’emanazione di provvedimenti liberali in tutta Europa. A ciò si aggiunsero, per non dire sovrapposero, le conquiste napoleoniche.

Figlia di questi eventi è pure la legge del 2 agosto 1806, emanata da Giuseppe Napoleone, Re di Napoli e di Sicilia – come si proclamò, anche se poi sulla Sicilia non regnò mai –; se si vuole stabilire il momento esatto, di quella che può essere definita la caduta dell’impero feudale, è proprio qui che essa trova collocazione. Forzando un istituto plurimillenario quale il feudo, questo fenomeno rese necessaria la creazione, ma ancor prima l’ideazione, dei prolegomeni di ciò che oggi definiremmo diritto amministrativo.





In realtà si volle l’abolizione non solo sulla spinta delle leggi e della dominazione francese, per attuare in tutta l’Europa i fervori rivoluzionari (che oramai, in realtà, si erano alquanto attenuati), ma anche perché la feudalità – o per meglio dire il sistema feudale – provocava danni enormi ad una molteplicità di soggetti. Le popolazioni dei territori baronali, infatti, non solo subivano le angherie tributarie dei feudatari (con decime, terraggi e servitù di pascolo), ma vedevano i demani feudali chiusi perché destinati a difese. Le Università – che potremmo paragonare, fatte le opportune distinzioni, ai Comuni – vantavano crediti ingenti dai feudatari che questi continuavano ad ignorare, arrivando, a volte, ad occupare parte dei demani delle stesse Università, con lo scopo di alienarli, del tutto arbitrariamente. Ma, forse, a soffrire i mali peggiori era il Demanio statale, che, a causa di una burocrazia troppo lacunosa, e spesso compiacentemente indolente, permetteva ingenti distrazioni dal suo patrimonio.


Dopo questa premessa sul feudo e sulla feudalità – premessa quanto mai necessaria visto che la legge del 2 agosto 1806, non fu che l’antefatto per la trattazione delle questioni demaniali – occorre passare alla rassegna del demanio.

La definizione maggiormente corretta di demanio risale a Winspeare che in una lettera del 1810 al Ministro dell'Interno, citava alcuni criteri per riconoscere le terre demaniali di carattere universale: “… boschi, montagne, terre piane, colte o incolte di vasta estensione …” di cui il possessore non possa mostrare il titolo d’acquisto[7].

In ogni congregazione umana, quando si passi dallo stadio primordiale di nomadismo a quello di popolazione stanziale sorge la necessità di creare delle zone franche, rispetto alla possibilità d’occupazione individuale che tutti possono esercitare, per permettere la pastorizia e la caccia''. Pertanto la prima forma di demanio fu quella universale, e questo spiega l’intrinseca difficoltà di reperire un titolo scritto comprovante la costituzione di un tale diritto – questo fece affermare a Winspeare, in un rapporto al Ministro di Giustizia: “…l’Università del territorio ha per se la presunzione, tocca al Barone provare il contrario”[9] –; durante il dominio dei feudatari per demanio universale, però, si intesero quei terreni sui quali era concesso ai cittadini di seminarvi, immettervi animali, raccogliere frutti spontanei o incidervi legna (di qui l’origine degli usi civici).



Il primato della legislazione francese in questa materia è di generale accettazione visto che essa “fu la prima ad abbattere il sistema feudale, nato nel suo seno e reso per tanti avvenimenti gigante”[10]. Nella notte del 7 agosto 1789, oltralpe, la feudalità venne proclamata abolita, dando vita ad una serie di decreti che portarono alla generalizzata soppressione degli altri diritti signorili.

Pubblicati l'11 agosto, questi decreti confermarono l'abolizione totale del regime feudale da parte dell'Assemblea nazionale. All'entusiasmo dei deputati parigini si oppose il rancore crescente dei piccoli contadini, che dovettero attendere sino al 17 luglio 1793 perché l'abolizione totale, definitiva e senza restrizioni dei diritti feudali fosse votata dalla Convenzione.



Gli accadimenti della Francia rivoluzionaria scossero l’intera Europa compreso il Regno delle Due Sicilie; questo è provato da alcuni documenti, di importanza estrema che dimostrano come “…la sistemazione dei demani comunali nel nostro Regno non va esclusivamente attribuita al dominio della Militare Occupazione nelle nostre province”[11]. Nel 1804 – a più di due anni dalla legge del 2 agosto – Domenico Martucci fu incaricato di dare sistemazione al demanio in «vico di Pantano» in Terra di Lavoro e, come scrisse nella lettera al Re del 15 Gennaio 1804, propose una divisione dei demani in loco esistenti in: baronali e universali, prevedendo una spartizione in parti uguali perché “…non potendosi mettere in dubbio il pieno dominio dei Baroni sembrerebbe ingiusto di privarli di quella rendita, che loro legittimamente si appartiene: egualmente più ingiusto sarebbe di togliere alle Università ed ai cittadini i diritti ad essi pervenuti dalla prima origine dei feudi”[12]. Oltre alle giustificabili – est modus in rebus – concessioni baronali, importante è vedere come già qualcuno avesse pensato ad aggiudicare alle Università parte dei demani, ma non solo: si credette opportuno censire tali terreni, fissandone un canone per una futura distribuzione con riguardo “…alla facoltà e forze di ciascun cittadino per la quantità di terreno che può coltivare”[13].

I Borboni – più spesso di quel che si crede – si fecero portatori delle istanze contadine. Più volte nelle varie Prammatiche ripetevano l’importanza dell’agricoltura e dei suoi addetti. Dimostrazione ne fu anche l’istituzione, dovuta a Ferdinando IV, dei Monti Frumentari, che “accredenzavano, con lieve interesse, gli agricoltori, di sementi o di altro bisognevole, per la coltura dei campi e per l’allevamento degli animali”[14].

Ma anche in tema di feudalità – e dei suoi abusi – intervennero pesantemente, intraprendendo però una strada diversa. Essi vollero estinguere il feudo per vie legali, in maniera da risolvere anche le controversie fra Università e baroni. Memorabili a questo proposito rimangono la Prammatica XIII del 1792 e la XIV – dello stesso anno – con cui si sciolsero le promiscuità, conservando i diritti dei coloni perpetui; inoltre si dettero in affitto i demani feudali universali.

Queste ed altre iniziative, però – come abbiamo visto con il progetto elaborato da D. Martucci – rimasero tentativi isolati che poi vennero travolti dal succedersi degli eventi politici. Ma è interessante rilevare come prima ancora dell’intervento napoleonico siano stati promossi tentativi di dare sistemazione a disordini addirittura secolari.


Le vicende politiche di inizio secolo fecero in modo che la feudalità non fosse abolita nello stesso momento e con le medesime leggi in tutto il Regno Napoletano; nel 1806 le provincie continentali erano sotto il controllo di Giuseppe Napoleone, ma la Sicilia era rimasta a Ferdinando IV di Borbone. Vero è comunque che le aspettative dei liberali napoletani – già fortemente represse dopo il fenomeno della Repubblica del 1799 – riemersero con tutto il loro vigore. “Mai come nel Decennio si operò con lena ed entusiasmo. L’energia dei governanti francesi, la riconquistata unità della classe dirigente napoletana, che gli eventi rivoluzionari avevano drammaticamente divisa, la più consapevole e intensa azione della borghesia delle provincie chiamata a nuove responsabilità, spiegano l’eccezionale fervore di quegli anni, i fermenti di vita nuova, le non poche e durature realizzazioni[15]”.

La legge del 2 agosto 1806 non fu sufficiente per assicurare l’attuazione della riforma in maniera completa, dato che nella stessa legge, l’articolo 15 prospettava una nuova legge – che poi fu emanata l’1 settembre 1806 – sulla divisione dei demani di qualsivoglia natura, feudali o di chiesa, comunali o promiscui.

Il quadro venne completato con il Real Decreto del 3 Dicembre 1808, secondo cui ogni Intendente aveva il compito di preparare i progetti e trasmettere l’entità dei diritti che gli ex-baroni conservavano.


Nello stesso tempo si provvide alla risoluzione delle molteplici liti pendenti fra le Università e Baroni. Stante l’enormità di queste cause si creò – per esigenze di uniformità – una Commissione col compito di derimere le questioni sorte prima del 2 agosto 1806.

La Commissione Feudale – che operò fino al 1 Settembre 1810 – era composta da Dragonetti, Davide Winspeare, Giuseppe Raffaelli, Giuseppe Franchini e Domenico Coco. La vita della Commissione, fu dunque molto breve, e nei voti del Ministro dell’Interno, Zurlo, avrebbe dovuto essere ancora più breve, visto che il suo termine era già stato prorogato. “Da più parti si reclamava la cessazione delle magistrature straordinarie, la normalizzazione, la pacificazione. Qualcosa doveva essere sacrificato e, come ben può intendersi, fu sacrificata la quotizzazioni dei beni demaniali, sia perché l’esecuzione delle sentenze aveva carattere preliminare ed assoluta precedenza, sia perché nelle quotizzazioni si incontravano maggiori difficoltà e resistenze[16]”.

Frattanto anche in tema di divisioni demaniali si era assistito alla sostituzione dei Consigli d’Intendenza con i Commissari per la Divisione dei Demani – essi dovevano conciliare le contese sulle divisioni (o risolverle con decisioni motivate).

I Comuni quindi si trovarono attribuita una gran quantità di terre, che andavano divise fra i cittadini, così come voluto dall’articolo 15 della legge del 2 agosto 1806.

Nel giro di un mese dalla legge sull’eversione, si ebbe, come già accennato, una nuova legge – 1 settembre 1806 – che previde la quotizzazione di terre demaniali, attribuendo l’incarico della sistemazione degli interessi a queste inerenti ai Commissari Ripartitori, i quali fra l’altro videro presto ampliare le proprie competenze fino a comprendere la valutazione circa gli usi civici.


Già i Normanni provvidero a distinguere le terre e le città in demaniali e feudali a seconda che fossero rimaste nel regio demanio o che fossero state infeudate.

Nella rigorosa proprietà del linguaggio della ministeriale 29 agosto 1807, le proprietà libere “nelle mani degli ex-feudatari si chiamavano burgensiatiche, nelle mani dei luoghi ecclesiastici si chiamavano patrimoniali, nelle mani dei cittadini si chiamavano allodiali”[17]. Però nel linguaggio comune queste voci si scambiano, denotando tutte la proprietà libera, non feudale. Per questa ragione si rende indispensabile una distinzione fra i numerosi tipi di demanio, anche se non troppo accurata per ragioni d’opportunità scientificamente.

La voce «demanio» denotava innanzi tutto quelle cose che erano sotto l’immediato potere del re – a differenza di quelle concesse in feudo – ossia il demanio regio. Denotava inoltre quella parte dei territori di ciascuna città o terra che era destinata agli usi dei cittadini, ossia il demanio universale o comunale. Di queste due specie di demanio il primo, e più antico, è quest’ultimo visto che gli usi civici – come accennato – preesistono alle trasformazioni giuridiche della terra e rappresentano, di fronte a queste, le riserve dell’antico dominio che le popolazioni vantavano sulla stessa. Sopravvenuto il feudo, concedutasi nella infeudazione dal sovrano una parte di territorio uti frui ai signori, sorse una nuova specie di demanio che fu quello feudale, e siccome vi furono anche i feudi ecclesiastici tali demani presero appunto il nome di ecclesiastici. Finalmente fra le Università vicine poteva aver luogo una compartecipazione di usi sui loro tenimenti ovvero su una parte degli stessi, la quale si chiamava promiscuità – generale nel primo caso, particolare nel secondo – di qui un’altra forma di demanio, quello promiscuo.

Accanto a questa distinzione se ne rinviene una ulteriore all’interno del demanio universale. La tripartizione che venne adottata non fu propriamente una novità, si provvide a “… distinguere quindi gli usi essenziali – riguardanti lo stretto uso personale necessario al mantenimento dei cittadini –; quelli utili – che comprendevano, invece, una parte eziandio di industria –, e infine quelli dominicali – in cui più chiara era la sopravvivenza delle antiche «riserve», perché comportavano anche la partecipazione ai frutti e al dominio del fondo”[18].


Non tutti i demani, certo, potevano essere quotizzati, infatti ne erano escluse le difese e le terre comunali aperte, eccedenti i bisogni e i mezzi delle popolazioni.

Tutta questa massa di terra “sottratta alla divisione, resta allo stato di demanio, cioè soggetta agli usi dei cittadini”[19]. Le modalità del loro esercizio dovevano essere individuate dai regolamenti dei vari Comuni e contro la loro abusiva occupazione o alienazione illegittima, si prevedeva l’azione di reintegra.

Alla quotizzazione ebbero il diritto di participare coloro che godevano degli usi civici, ossia tutti i cittadini di un Comune – dunque anche il Barone – o perché naturali del Comune (nel senso di originari), o perché abitanti. Così come è impossibile essere cittadini di più d’un Comune non è possibile partecipare a quotizzazioni in due Comuni. Si ritenne inoltre impossibile, che uno stesso individuo partecipasse a più d’una quotizzazione in uno stesso Comune.

I sistemi utilizzati per la ridistribuzione di queste terre, previsti direttamente dalla legge, erano di due tipi: la quotizzazione per teste e la quotizzazione per domanda ed offerta. La prima, quella per teste, fu prevista dall’articolo 24 del R. D. 3 dicembre 1808, come la regola. Dopo la nomina di tre periti – non cittadini – e la determinazione del numero dei partecipanti, si sarebbe proceduto all’individuazione dei demani divisibili, distinguendoli in tre classi diverse in base alla qualità della terra, e alla determinazione del prezzo. Dopo il vaglio del Consiglio Comunale, l’Agente Ripartitore avrebbe trasmesso tutti gli atti al R. Commissario Ripartitore il quale avrebbe provveduto al sorteggio delle quote.

Quando la terra non era sufficiente per permettere una divisione equa fra tutti i cittadini, si faceva ricorso all’altra forma prevista dalla legge, quella per domande ed offerte: essa restringeva il numero dei beneficiati, preferendo i non possidenti e i piccoli proprietari. Il procedimento era simile a quello visto per la quotizzazione per teste, ma le differenze emergevano allorché il Commissario Ripartitore formulava un bando invitando i cittadini a presentare le domande per la divisione. Nel caso il numero dei richiedenti fosse superiore agli appezzamenti – infatti i territori da dividere erano parcellizzati in quote – si procedeva a ridimensionarli preferendo i capi famiglia non possidenti, poi i piccoli possidenti, poi i maggiori di anni 17.

Simile a questo sistema fu quello adottato per la distribuzione delle terre indivise o di quelle sottratte agli usurpatori: dopo la pubblicazione di un bando, con lo scopo di portare la popolazione a conoscenza della futura asta, aveva luogo la stessa nella quale si attendevano le offerte – che spesso dovevano essere sorrette dalla garanzia di un fidefacente –; il tempo di attesa era quello della consumazione di una candela vergine. Suscita impressione notare come questo metodo della candela, già in vigore al tempo della legge del 2 Agosto, sia stato sostituito con uno più moderno – un’attesa di tre minuti – solo nel 1998[20].

La concessione non era senza obblighi, poiché si richiedevano delle garanzie per evitare che i quotisti si disfacessero con troppa facilità delle terre avute in concessione. Era infatti vietato per un periodo di 20 anni, ipotecare e soprattutto alienare le quote; in caso di violazione il quotista sarebbe decaduto dalla concessione – e le terre sarebbero tornate al Comune –; successivamente si sarebbe provveduto ad una nuova distribuzione.

Prima di poter procedere a quotizzazioni, però, occorre che il Comune tornasse proprietario dei terreni demaniali. Spesso la prova della demanialità è agevole poiché le Università hanno portato varie volte i propri gravami dinanzi alla Commissione Feudale, anche se poi, le denominazioni da questa adoperate non si distinguono per coerenza. Per la molteplicità dei demani si rende opportuna un’analisi partitica che permetta di comprendere le caratteristiche strutturali delle prove poste a fondamento della loro demanialità, facendo eccezione naturalmente il demanio regio, che non era in discussione.

Prova dei demani universali. Per tale tipo di demanio i Comuni dovevano fornire non la prova della proprietà del demanio, ma della qualità demaniale del terreno. Essa si fondava su vari parametri. Il primo era costituito dall’esercizio degli usi civici; spesso quest’esercizio era stato usurpato, pertanto non si richiedeva l’attualità, ma solo la prova, tramite documenti, processi antichi e simili, che, in tempi anche antichi, fossero stati concessi o adoperati gli usi civici. Per questo tipo di demanio poi spesso la Commissione tenne conto degli stati catastali e di quelli discussi, ma solo se andavano a favore dei Comuni e non viceversa.

Prova dei demani feudali ed ecclesiastici. La Commissione feudale nel valutare questo tipo di demanio tenne conto solo dei feudi nel possesso attuale del signore, pertanto non poteva servirgli, questa prova, per espellere altri possessori. Testimonianze fondamentali del demanio feudale sono, come naturale, gli atti di concessione e di investitura – comprendendo in essi anche i rilevii, ossia le rinnovazioni dell’investitura in caso di successione nel feudo; circa i demani ecclesiastici, i quindenni delle mani morte, cioè le tasse dovute ogni quindicennio appunto, equivalevano ai rilevii – e in genere tutti gli atti dimostranti che i feudatari erano soggetti a imposte e gabelle per il godimento dei loro territori.

Prova dei demani promiscui. La promiscuità poteva essere costituita per contratto – e i questo caso la dimostrazione è comoda visto che risiede appunto in un contratto che si basava su altri presupposti quali il consenso dei cittadini, l’assenso del feudatario (nel caso fosse necessario), e l’indispensabile beneplacito regio – e per prescrizione, ad vetustas, che si dimostrava con le enunciazioni contenute in antiche scritture o con testimoni di almeno 50 anni che però fossero in grado di dimostrare: d’averli uditi dai loro progenitori, della pubblica fama su essi circolante, e del non esservi mai operato in contrario.

Le divisioni demaniali – che iniziarono durante l’occupazione francese, ma continuarono pure sotto Ferdinando IV – non avvennero senza difficoltà o tentativi di illeciti. E’ del Dicembre 1810 una circolare del Ministero dell’Interno, diretta a Intendenti e Sottintendenti, con cui si mette in guardia “…che sovente i decurioni spinti più dal desiderio di sostenersi nelle usurpazioni fatte su i fondi dei demani comunali, che animati dal proprio dovere appongono degli ostacoli alla divisione …”[21]; per porre a ciò un freno si previde la comminazione di multe contro tali decurioni.


Dopo il decennio d’occupazione francese, venne restaurato il governo borbonico. Il 20 settembre 1815 venne nominata una commissione per riferire sulle massime adottate dalla Commissione Feudale e per verifare la legittimità delle sue decisioni.

Questa Commissione era composta dal presidente della Corte di Cassazione, il principe di Sirignano, dal Presidente della Corte dei Conti, il marchese D. Nicola Vivenzio, e dal Consultore D. Giacinto Troysi.

Nel 1815 la Commissione Demaniale inviò al Ministero di Grazia e Giustizia un Rescritto – il numero 300 – contenente l’indicazione delle basi giuridiche dei criteri adottati per la risoluzione delle controversie baronali, da parte della Commissione Feudale. Dunque emerse che si erano poste, a priori, delle norme, tendenzialmente irretrattabili con cui si decideva su questioni di cui non si “conosce né il tenore né la giustizia, e lo stesso che esporre a piacimento il diritto delle parti e la giustizia stessa”[22]. E in base a queste considerazioni che da più parti si criticò l’operato intero della Commissione Feudale[23]. Le sue competenze comunque spaziarono dal riconoscimento di terreni feudali, alla divisione di terre comuni fra i cittadini.

La Commissione Feudale, insomma, ebbe una funzione più politica che giudiziaria e si produsse più d’una lesione nei confronti dei diritti dei privati, ma queste questioni scomparivano – allora come ora – dinanzi all’utilità generale della abolizione della feudalità. Perché – in sostanza – da essa tutti s’erano avvantaggiati. Il governo riebbe piena giurisdizione in un campo, quale quello feudale, che per lungo tempo era stato dilemma di molti governanti. Le pubbliche amministrazioni – per non dire gli stessi feudatari – furono sollevati da pesi fiscali e burocratici. I Comuni, videro rimpinguato, grazie alle divisioni, il proprio erario. Infine la popolazione vide la possibilità – che, per le note vicende che seguirono la divisioni, rimase tale – d’ottenere terre libere da vincoli[24].

Due Decreti Reali della fine del 1815, comunque, permisero di ricorrere contro i giudicati della Commissione Feudale.

Del carattere tutt’altro che positivo che si dava da una certa parte della letteratura all’intera vicenda dell’abolizione della feudalità non bisogna tener conto. Del resto queste leggi furono prese, dal popolo, come una grande rivoluzione, al punto da far dire addirittura che erano, o avrebbero dovuto essere, un calmiere per l'emigrazione, mirando alla creazione della piccola proprietà terriera[25], evento che però è fuori della realtà storica dato che nel giro di pochi decenni i territori migliori – sebbene quotizzati e divisi – tornarono ai “feudatari” o si trovarono nelle mani di quelli che di li a poco furono definiti latifondisti, ma che già erano detti maspoderosi, termine che già nell’etimologia presenta un che di protervo.

Questa polemica non è affatto nuova e non sono pochi gli studiosi che ne riportano le cause alla stessa legislazione del 1806 che, mirando a creare tante piccole proprietà, sottraeva le colonie alla divisione – articolo 14 del Decreto Reale del 1808 – e così i grossi proprietari, utilizzando prestanome fecero risultare come colonie tutte le loro terre ovvero riacquistarono quelle divise a bassissimo prezzo, approfittando delle infime condizioni delle provincie meridionali – più volte avversate da carestie e soverchie continuate – per sottrarre a chi ne aveva avuto il diritto, le terre quotizzate[26].

Inoltre l’articolo 13 dello stesso Decreto del 1808 prevedeva la possibilità di vendere le quote, ottenute con la divisione dopo soli 10 anni. “Quindi le quote ripiombarono in potere dei prepotenti proprietari, e la miseria delle masse agricole progredì a tal punto, che i quotisti, spogliati dalle terre demaniali, furono costretti locare ai prepotenti l’opera delle loro braccia”[27].


La questione demaniale – così come è stata battezzata da vari studiosi – non si risolse affatto, nel Meridione, dopo la restaurazione borbonica, tornando vivissima per tutto il XIX sec. e anche oltre, non solo per le continue pretese tanto degli ex-feudatari che dei contadini, ma anche per il continuo parlare che se ne fece a livelli ben più alti, giustificando con essa altri fenomeni, o comunque ponendola alla loro base.

Per molti anni essa si agitò, nell’Italia barbara contemporanea – come qualcuno[28] s’è compiaciuto di definire il Meridione –, suscitando le chiare pagine scritte nel 1940, da Manlio Rossi Doria: “Il vasto processo avviato, con evidente coerenza ideologica, nel 1806 aveva avuto esiti ancor più negativi: un tragico sperpero di ricchezza, l’immutato persistere della miseria dei contadini ed un ulteriore concentramento della proprietà terriera”[29].

La questione demaniale fu il fondamento di una serie di fenomeni che portarono il Mezzogiorno, durante il XIX sec., ad uno stato di degrado sociale non riscontrabile, a meno di non tornare ai secoli medioevali. Di qui al brigantaggio il passo è più che breve. Dice ancora Doria: “…la questione demaniale…, se sta alla radice dei moti del brigantaggio …, riaffiora sempre per le stesse terre, sia o non sia avvenuta la liquidazione degli usi civici …; è la coscienza incancellabile di una spogliazione avvenuta e non dimenticata, di un gran torto subito; ma il torto non è tanto quello… della non o mal regolata questione demaniale specifica, ma… è la coscienza che la terra, per diritto originario, primitivo, è della popolazione, è di tutti”[30]. E quando non si sfociò nel brigantaggio “la reazione della classe maltrattata ha preso un’altra forma: quella dei tumulti sporadici: l’assalto al municipio, il bruciamento del casotto daziario, la dimostrazione al grido di abbasso le tasse[31]”. Questo genere di rivolte non era destinato a placarsi presto se ancora nel 1909 Errico Presutti, stilando la Relazione Parlamentare sulle condizioni dei contadini delle province meridionali, nell’ambito dell’Inchiesta Faina, fu costretto a riconoscere che “… vi è una sola categoria di affari comunali, a cui i contadini si interessano veramente: la rivendicazione di demani usurpati. I contadini credono che i demani debbano ancora essere quotizzati fra di loro; onde, appena viene posta in campo una questione demaniale, i contadini si agitano e ricorrono a quella forma loro caratteristica di partecipazione alla vita pubblica, che è la protesta[32]”.

Da più parti si riteneva che persino gli episodi prodottisi nel 1848, fossero stati innescati dalle rivendicazioni sociali dei contadini, troppo spesso frustrate[33].


Gli atti parlamentari del neonato Regno d’Italia poi erano pieni dei prodromi della questione demaniale; si insisteva sulla cosiddetta questione meridionale, che trovava la sua naturale radice negli errori commessi durante – o per meglio dire dopo – la quotizzazione. Essa – per dirla con le parole del più grande meridionalista del secolo scorso, Giustino Fortunato – “… è come un campo inesauribile di corruzione, in cui sguazzano allegramente gli usurpatori e i prepotenti… tutti coloro, insomma che vogliono mantenere o dare la scalata al potere”[34].

Troppo spesso infatti le pretese demaniali, seppur legittime, furono utilizzate per porre i contadini, o coloro che pensavano d’aver subito un torto, in uno stato di sobillazione. Difatti, non raramente, da più parti si chiesero nuove quotizzazioni che addirittura, si sosteneva, essere l’unico metodo per risollevare il Mezzogiorno[35].

Soltanto più tardi ancora Fortunato fece chiarezza sulla inutilità delle quotizzazioni ricordando come occorreva permettere agli assegnatari delle quote il sostentamento della famiglia agricola, se non si volevano i fenomeni di abbandono o usurpazione delle quote, che s’erano già verificati in passato. Secondo l’illustre studioso di Rionero le quote assegnate ai contadini sono troppo esigue, ma anche con estensioni maggiori le prospettive non sarebbero forse mutate, poiché costoro comunque non avrebbero avuto i capitali necessari per assicurare lo sfruttamento proficuo della terra. “… le quotizzazioni… non hanno agevolato nell’Italia meridionale, se non il monopolio dei terreni nelle mani dei proprietari…[36]”.

Varie sono le ragioni che non hanno permesso la realizzazione della piccola proprietà così come era nei voti del legislatore del 1806. Nuovi ceti emergenti – uniti ai vecchi – frapponevano ostacoli alla divisione. “… Le classi egemoniche – gli ex-baroni e i proprietari borghesi – non avevano alcun interesse alla formazione d’una piccola proprietà contadina sui demani comunali; avevano anzi mire del tutto contrarie, desiderando appropriarsi direttamente di quei beni o tutto al più lasciarvi sopravvivere gli usi civici e il compascuo dal quale i grossi allevatori avrebbero continuato a trarre il massimo vantaggio[37]”. La differenza – invero – fra proprietà borghese e proprietà nobiliare è adesso, molto sottile[38]. Al concetto borghese di proprietà, affermatosi nel codice napoleonico, si sovrappose nelle province meridionali, un sistema di produzione e dei rapporti sociali di carattere arretrato. Ciò naturalmente andava a favore di chi intendeva giovarsi pure della mancata divisione.

Non sfugge[39], che non basta fare a pezzi un latifondo a forza di leggi fra un certo numero di piccoli coltivatori, cercando di risolvere il problema delle condizioni dei contadini al tramonto del baronaggio. Lo stesso Winspeare sostenne, che qualora non si fosse proceduto alle quotizzazioni non bisognava far concessioni ai più ricchi, bensì reintegrare nella massa dei demani comunali indivisi le terre residue per procedere poi ad una nuova distribuzione tra “cittadini non proprietari ed industriosi che sappiano apprezzare il valore della proprietà e tirarne i maggiori vantaggi[40]”.


Giunti a questo punto non rimane che tirare le fila del discorso che finora s’è venuto facendo.

Da quanto esaminato, s’intende come la vicenda eversiva sia stata adoperata in maniera tutt’altro che lineare, sia da parte di quanti erano già possidenti, e che con essa ottennero il modo di ampliare le proprie estensioni, che da parte di amministratori della cosa pubblica, che, in realtà, erano preoccupati solo del proprio interesse.

Tutto questo, unito alle precarie condizioni in cui le terre meridionali versavano, non poteva che produrre i fenomeni che a lungo hanno allontanato il Mezzogiorno dal centro economico-produttivo, situato nelle regioni settentrionali e soprattutto oltre.


Frutto della questione demaniale e del suo fallimento possono essere considerati a pieno titolo altri fenomeni che videro il Meridione protagonista di vicende a volte confuse, ma che danno il polso della situazione. Il riferimento chiaro è tanto ai moti del 1848, che alla vicenda del brigantaggio.

Illuminante appare dunque il pensiero di uno dei più chiari meridionalisti italiani. “L’abolizione di diritto del sistema feudale non produsse nessuna rivoluzione sociale, appunto perché i feudi, all’infuori delle sole terre che erano state regolarmente date in enfiteusi, furono in libera proprietà agli antichi baroni: onde al legame fra il coltivatore e il suo suolo, non si sostituì come altrove l’altro vincolo della proprietà, ma invece quel legame fu semplicemente rotto, e il contadino si trovò libero in diritto, senza doveri ma anche senza diritti, e quindi ridotto di fatto a maggior schiavitù di prima per effetto della propria miseria[41]”. E ancora. “… accaddero… fatti che avrebbero dovuto insegnarci dove era più profonda la piaga, e dove quindi conveniva far convergere l’azione dei rimedi… Al grido di abbasso i sorci, le turbe di contadini davano addosso ai proprietari e a chiunque apparteneva alla classe agiata”.


Spesso il piccolo proprietario, come visto, non riesce a mantenere la quota riconosciutagli dalla quotizzazione, ed è per questo costretto a venderla al grande possidente. Ma anche quando ciò non sia avvenuto, e il contadino sia riuscito a non disfarsi della sua quota, “il medio proprietario, non sempre, ma specie dopo un anno di cattivo raccolto, non ha mezzi per coltivare le sue terre. Deve ricorrere al credito, che, nella mancanza di Banche, gli viene fatto dal grande proprietario… a condizioni spesso gravose. Il debito facilmente si aumenta, specie se gli anni di cattivo raccolto si susseguono. Così la proprietà finisce con l’accentrarsi nelle mani di pochi grandi proprietari[42]”.

Questo fenomeno, unito ad altre ataviche incongruenze del Meridione, naturalmente pose i contadini, ma anche la piccola borghesia agricola – estremamente attenta agli stravolgimenti politici che si succedettero nel giro di pochi anni – in uno stato di sobillazione, rendendola pronta ad esplodere al più piccolo segnale di – promessa – rinascita.

Senza dubbio questo fu il quadro che favorì il radicarsi dei prodromi degli avvenimenti del ’48 nel Mezzogiorno, che “sono ulteriore prova del peso talora decisivo che gli insoluti problemi delle campagne meridionali esercitavano anche sul piano politico[43]”.

Dalla matrice feudale nacquero insieme la grande borghesia agraria e i piccoli contadini senza terra o con poca terra. Già nel Settecento la situazione era abbastanza differenziata. Esistevano affianco ai possessi feudali ed ecclesiastici, la piccolissima proprietà contadina, la proprietà dei borghesi, le grandi proprietà comunali, e le terre comuni distinte e spesso gelosamente difese da illeciti baronali e già campo di scontro di varie e contrastanti aspirazioni. I larghi movimenti rurali e contadini del 1848 erano ricordi vivi e temuti dalla borghesia fondiaria ed intellettuale e sottolineavano la precarietà di una situazione, l’instabilità d’un equilibrio minacciato ad ogni crisi. Nei ceti medi e borghesi cresceva la diffidenza per la monarchia che coscientemente o intuitivamente profittava dei contrasti sociali per mantenersi arbitra e per non cedere alle istanze costituzionali.


L’instabilità e la precarietà di molte situazioni economiche e sociali si prestavano maggiormente al raggiungimento dell’Unità, ma anche oltre, nell’Italia meridionale a innovazioni ed esperimenti. Il 1860, e quello che esso rappresentava, significò anche il crollo delle superstiti aspirazioni e rivendicazioni contadine, l’eliminazione di vecchi vincoli e il completamento del processo di appropriazione privata della terra con la liquidazione del patrimonio ecclesiastico e demaniale.

Tutto questo non poté che sfociare nei noti e tristi fenomeni del brigantaggio che trovarono per tali ragioni fertile terreno nelle zone meridionali che più erano state esposte alle esigenze per troppi anni trascurate o soffocate e che nell’Unità avevano sperato di trovare nuova linfa. Esso associò le forme tradizionali del ribellismo contadino a una violenta protesta contro lo Stato italiano, appena costituito, favorita dall'appoggio dei Borbone e del governo pontificio. Il brigantaggio mise radici sulle condizioni materiali e morali in cui vivevano le plebi meridionali ed esplose contro lo Stato unitario, che impose misure amministrative e fiscali considerate punitive nei confronti delle popolazioni meridionali. La dissoluzione dell'esercito borbonico, che reclutava truppe tra i contadini poveri, l'abolizione degli antichi usi comuni delle campagne, l'introduzione della leva obbligatoria furono alcune delle ragioni che scatenarono il brigantaggio.

Naturalmente non è questa la sede per considerazioni sul brigantaggio che non si limitino ad un accenno. Però la serietà del problema merita una considerazione. La risposta del governo piemontese fu prevalentemente repressiva: fu inviato un corpo di spedizione che contò oltre 150.000 soldati al comando del generale Alfonso Lamarmora, e furono instaurate leggi eccezionali (la legge Pica del 1863) sotto la giurisdizione dei tribunali militari. Probabilmente la risposta dura dello Stato era l’unica possibile, ma ancora una volta le pretese dei meridionali, legittime ma errate nei modi di proposizione, vennero represse in maniera violenta.


Non sorge dubbio infine nel considerare derivazione meno indiretta di quanto non si creda un altro fenomeno – qualcuno direbbe piaga – del Mezzogiorno: l’emigrazione. I contadini stanchi delle continue promesse, che oramai erano destinate a rimanere tali, preferivano cercare altre vie per la propria riqualificazione sociale. “E a spingerli verso quell’ignoto, avevano concorso, insieme, la scarsa produttività del suolo rincrudita da sistemi arretrati di coltura, dall’ignoranza e dalle ricorrenti crisi agrarie; i sistemi tributari gravi pel peso ed esosi per le forme di percezione; gli intollerabili sistemi amministrativi ancora più viziati nella pratica di ambienti ancora compenetrati di usi ed abusi feudali[44].”


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[1] R. Trifone, Feudi e demani, Napoli, 1901.

[2] D. Winspeare, Storia degli abusi feudali, Napoli, 1883, pag. 5.

[3] C. Arcoleo, in A. Niceforo, in L’Italia barbara contemporanea, Palermo, 1898.

[4] B. Croce, Storia del Regno di Napoli, 1917.

[5]A. Musi, L’eredità normanna nel Mezzogiorno moderno e contemporaneo, in Normanni del Sud, 1999, Bari.

[6] C. de Montesquieu, Lo spirito delle leggi, 1748. In quest’opera, forse la più grande dell’autore, si pongono – fra l’altro – le basi della tripartizione dei poteri fondamentali dello Stato, ancor oggi valida ed insuperata.

[7] Lettera citata in M. Palumbo, I Comuni Meridionali prima ...Cerignola, 1910, pag. 152.

'' M. Palumbo, op. cit., pag. 115.

[9] Rapporto citato da M Palumbo, op. cit., pag. 117.

[10] P. Liberatore, Della feudalità, suoi diritti e abusi …, Napoli, 1834, pag.75.

[11] M. Palumbo, op. cit., pag. 147.

[12] M. Palumbo, op. cit., pag. 148.

[13] D. Martucci citato da M. Palumbo, op. cit., pag. 149.

[14] M. Palumbo, op. cit., pag. 409.

[15] P. Villani, Feudalità, riforme, capitalismo agrario, Bari, 1968, pag. 110.

[16] P. Villani, op. cit., pag. 105.

[17] G. Savoja, Raccolta delle leggi… , Roma, 1881.

[18] G. Liberati, Per la storia dei demani comunali, in Risorgimento e Mezzogiorno, 1999.

[19] F. Lauria, Demani e feudi nell’Italia Meridionale,1924, Napoli.

[20] La legge 302/1998 ha sostituito l’articolo 581 c.p.c. regolante le modalità dell’incanto per l’aggiudicazione dei beni immobili.

[21] Lettera citata da M. Palumbo, op. cit., pag. 161 e ss.

[22] Teti, Il regime feudale e la sua abolizione, 1890, Napoli.

[23] Si veda per tutti Bianchini, Della storia delle Finanze del Regno di Napoli, 1835, che però critica l’intera vicenda dell’eversione della feudalità.

[24] F. Lauria, op. cit. pag. 226.

[25] L. Ghirelli, La questione demaniale di …, 1897; che addirittura configura quella legislazione come proletaria, probabilmente ispirato dagli avvenimenti a lui contemporanei del neonato movimento so*****ta italiano.

[26] Questo è quanto riferisce il Cav. A. Bonafede, Vice Intendente in Calabria, nel 1845 al Ministro dell’Interno N. Santangelo. M. Palumbo, op. cit., pag. 164.

[27] Così ancora Bonafede.

[28] A. Niceforo, L’Italia barbara contemporanea, Palermo, 1898.

[29] G. Liberati, op. cit.

[30] Ancora in G. Liberati, op. cit.

[31] G. Salvemini, Riforma elettorale e questione meridionale, in l’Unità, 13 Aprile 1912.

[32] E. Presutti, Inchiesta Parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle Province meridionali e nella Sicilia, 1909, vol. III, Tomo I. Roma.

[33] De Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Roma, 1863.

[34] In G. Liberati, op. cit.

[35] Vedi la Relazione del Ministro dell’Agricoltura, Gioacchino N. Pepoli, del 1862. Citato da G. Liberati, op. cit.

[36] G. Fortunato La questione demaniale nell’Italia Meridionale, in Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, Bari, 1911, pag. 88.

[37] P. Villani, Mezzogiorno fra riforme e rivoluzione, Bari, 1962, pag. 169.

[38] Di quest’opinione è G. Valenti, Il Latifondo e la trasformazione, in L’eco dei campi, 1895.

[39] R. Ciasca, Latifondo e piccola proprietà, in l’Unità 14 Aprile 1912.

[40] D. Winspeare, circolare 29 Gennaio 1812.

[41] S. Sonnino, I contadini in Sicilia: la questione sociale,1876

[42] E. Presutti, op. cit.

[43] P. Villani, Mezzogiorno fra riforme e rivoluzione, Bari, 1962.

[44] E. Ciccotti, L’emigrazione, Palermo, 1911.


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