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 CALABRO-LUCANA

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C O N T R O L L A    D I S C U S S I O N E
mimc Inviato - 11/05/2003 : 12:58:45
CALABRO-LUCANA
Dopo tanti anni ch'ero andato via, conservando vaghi ricordi di Polistena, un grosso centro della Provincia di Reggio Calabria situato nella Piana della Corona, così ancora oggi chiamata in quanto appartenne per diversi secoli prima della spedizione dei Mille al Regno di Napoli, vi ritornai un giorno per i miei impegni nel sindacato. A Polistena avevo vissuto, circa sette o otto anni da bambino, nel periodo dell'ultima guerra; poi, la mia famiglia si era di nuovo trasferita nel Capoluogo, mia città natale.
A Gioia Tauro fui costretto a cambiare treno in quanto la tratta era servita da una società privata, la Calabro-Lucana, che da data immemorabile gestiva il servizio e, penso, lo gestisca ancor oggi. Poche cose erano cambiate da quando ero bambino se non quelle vetture sempre più logore e sempre più consunte, e lo sferragliare della littorina, che lenta ansava lungo il costone che da Gioia Tauro sale fino a San Giorgio Morgeto per proseguire per Polistena e finire, poi, a Cinquefrondi. Quello sferragliare mi riportava alla memoria i ricordi dei guerrieri medioevali dei vecchi films in bianco e nero, che rivedevo più volte da bambino, con le loto corazze ormai logore e arrugginite.
A Cinquefrondi la Calabro-Lucana arrivava al capolinea, ma io non ricordo di esserci mai arrivato, in quanto ci si fermava sempre alla stazione precedente, quella di Polistena, patria di artisti anche famosi, dove la mia famiglia risiedette per quasi un decennio per motivi di lavoro. In questo centro frequentai le scuole elementari fino alla terza, che non potrei concludere perché in quel periodo i tedeschi in ritirata, prima, e gli alleati in arrivo, dopo, avevano occupato la scuola trasformandola in ricovero per le truppe e per gli ufficiali.
Quel nome di Calabro-Lucana, sentito ripetere tante volte da mia madre, rievocava nei miei pensieri reconditi immagini di viaggi sempre desiderati e mai potuti fare. Spesso mi fermavo incantato, da bambino, a veder passare quelle vetture, allora trainate da una vaporiera, presso un passaggio a livello appena fuori dell'abitato di Polistena.
Ricordo sempre quello strano cartello piazzato in prossimità di un passaggio a livello incustodito con la scritta "Aktung" che non sapevo cosa volesse significare e cosa ci stesse a fare in quel posto. Per me quel cartello, con un teschio di morte vicino, richiamava antiche leggende e lugubri storie della mia infanzia che mia madre spesso ci raccontava, seduti attorno ad un braciere, nelle lunghe notti d'inverno, in quelle bigie stanze del Vico Trieste di Polistena, illuminate da una lampada ad olio scoppiettante o da un lume a petrolio.
E quanti sogni avevo legato a quel treno, quanti fantastici viaggi avevo immaginato seduto immobile con altri compagni di giochi lungo la scarpata di quella ferrovia nelle interminabili giornate estive del sud. Quei volti, oggi assenti ed indecifrabili, mi si sono affacciati per anni nella memoria ed ho sempre cercato di ricostruirli scrutando qualche rara e vecchia fotografia di classe di quel tempo. Ma l'unico ricordo che vive dentro di me è legato alla gioia che si provava a far girare all'infinito la transenna rotativa collocata a fianco del passaggio a livello che permetteva il passaggio dei pedoni oltre la massicciata della ferrovia.
Quante volte mi illudevo di andare lontano, di attraversare fiumi e mari e poter vedere posti fantastici, forse dando corpo alle favole materne, e ritornare un giorno, dopo aver fatto fortuna, indossando vestiti lussuosi e poter comprare una casa con tutte le comodità e con l'acqua in casa e permettere a mia madre di non patire più la fame e il freddo che la guerra ci aveva regalato a piene mani.
Seduto su quei vecchi sedili di legno, colorati dalle scritte piccanti degli studenti, ogni tanto venivo sbatacchiato da uno scomposto scotimento della vecchia vettura e lo stridio delle ruote d'acciaio che scorrevano sopra le logore rotaie, lanciavano intorno nugoli di scintille incandescenti che mi scuotevano dai miei pensieri riportandomi alla visione degli ulivi, che fuggivano come giganti immensi per la campagna, mentre le pecore al pascolo lungo la massicciata, ormai invasa dai rovi, si sbandavano spaventate.
Attraversava la littorina i vecchi ponti tesi sui burroni e la scarna acqua che scorreva in fondo alla scoscesa riva mi faceva rivivere gli instanti di paura che da bambino provavo le poche volte che con mia madre si intraprendeva qualche raro viaggio per recarci a Reggio in visita ai parenti, negli anni in cui mio padre era richiamato da militare nelle campagne di Africa Orientale o di Grecia.
Mi ricordo ancora che non avevo il coraggio di guardar fuori dai finestrini in quei tratti così scoscesi, e ad ogni scuotimento della vettura, dicevo qualche orazione quasi a scongiurare la possibilità che il treno precipitasse in fondo al burrone.
Quella paura riaffiora inconsapevolmente tuttora rimossa dall'inconscio in cui giace. Ed ogni tanto osservo con una malcelata apprensione la littorina attraversare quei ponti, sprovvisti di protezione o ringhiera, sospesi tra due dirupi scoscesi.
Scorrono immagini di stazioni deserte, dove lucertole e rovi la fanno da padroni. E ritornano alla mente quelle folle immense che assaltavano i rari treni nel corso dell'ultimo conflitto, quando i ponti sul fiume Pedace erano stati fatti saltare dai tedeschi in ritirata per rallentare l'avanzata degli alleati. E rivivo anche i miei momenti di terrore e i miei urli di disperazione quando mia madre si faceva largo a gran forza per prender posto su uno di quei carri in genere usato per il trasporto del bestiame che, in mancanza di vetture normali, veniva utilizzato anche per il trasporto delle persone.. E quelle stazioni, oggi deserte e silenziose, dove non avrei mai più pensato di poter ritornare, fermentavano allora di vita, di commercianti d'ogni genere, di operai.
Quelle folle in agitazione e gli assalti dei viaggiatori per occupare un posto qualsiasi mi facevano per certi versi sorridere ripensando alle proteste odierne contro l'organizzazione delle ferrovie in certi periodi dell'anno quando bisogna rassegnarsi all'affollamento dei treni che, comunque, non è minimamente paragonabile ai disagi che si dovettero sopportare in quei tempi viaggiando al buio su vagoni sgangherati, senza servizi ed in condizioni inumane di sovraffollamento. Un tempo tali situazioni furono vissute senza alcuna protesta; anzi, spesso, si era costretti a restare per lunghe ore in piedi per mancanza di posti e ricordo la disperazione di mia madre, con due bimbi tenuti per mano che piagnucolavano perché erano stanchi di restare in piedi ed abbastanza pesanti per essere tenuti in braccio. E grazie ancora che, in quei tempi, il senso di solidarietà di qualche viaggiatore, anche meno zoticone degli altri, aveva il sopravvento sull'indifferenza di tanti altri e, ogni tanto, lasciava il posto a mia madre con i suoi bambini per farci riposare e rinfrancare con un po' di riposo e di sonno.
Io, comunque, quando potevo me ne stavo sempre lì, con il naso incollato ai finestrini, e non mi sfuggiva mai nulla, anche i sassi agli angoli dei ponti e nelle stazioni riuscivo a contare e ricordare.
Anche per questo in tutti questi anni sembra non sia accaduto nulla, vedo quei sassi sempre fermi al solito posto: solo i rovi aumentano e le stazioni vuote con i cartelli bombardati dai colpi di lupara che ogni tanto ti offrono un senso di desolazione e dell'abbandono di Dio e degli uomini per questi paesi del Sud.
Per chi ha potuto assistere a tanti tristi avvenimenti, per chi ha vissuto certi momenti che sono stati tremendi e disperati, anche se si era molto giovani per poter comprendere fino in fondo il grado di povertà che ci circondava, il rivedere a distanza di anni certi paesaggi e rigustare ancora l'odore della paglia secca, che profuma di buono appena qualcuno ci passa sopra con gli scarponi grossi, il riascoltare i trilli dei grilli e quel concerto sempre uguale, interminabile, e per certi versi monotono, dello stridore delle cicale sotto il sole rovente dell'estate calabrese, si riprova un senso di gioia che ti prende la gola, come un malessere vissuto, dal quale si è riusciti ad uscirne fuori, ma che per un senso di strano masochismo se ne avverte a tutt'oggi la mancanza e vorresti rivivere quei momenti per poter capire fino in fondo la realtà di quel lontano periodo storico.
Non riesco neppure ad immaginare quale reazione potrei avere a rivivere, a distanza di tempo ed in condizioni profondamente diverse, certi momenti di vita e certe situazioni del passato. Sicuramente penso che se quei momenti potessero essere proiettati su uno schermo sbiadito dal tempo le emozioni sarebbero profonde ma credo che le situazioni sarebbero vissute come fatti che non ti sono mai appartenuti.
L'incantesimo di quei momenti, di cui oggi avverti la mancanza e che sono legati ai tuoi ricordi di bambino ed al tuo vissuto reale, forse si desidererebbe riviverli veramente per riprovare interamente gioie e sofferenze e poter ritrovare affetti e sentimenti dimenticati, che non sembrano poi così lontani, e poter capire fino in fondo il sacrificio fatto da altri per farti crescere. Solo così, forse, si riuscirebbe ad approfondire il senso di alcune frasi di mia madre, ripetute più volte, e che oggi riesco meglio ad apprezzare nella loro interezza grazie alle mutate condizioni sociali di gran parte di quei nuclei familiari che si aguravano, in quel tempo, la fine delle sciagure in cui era stata coinvolta un'intera generazione e che speravano che un giorno i propri figli non dovessero più rivivere drammi e situazioni di quella portata.
Speranze vane perché poi i figli crescono e sono costretti, soprattutto al sud, di andare a cercare lavoro altrove. E la speranza iniziale di tornare diventa poi con il passare degli anni sempre più remota ed irreale. Così i figli vanno via è vero, e generalmente migliorano anche le loro condizioni di vita, ma le madri rimangono con la certezza del loro ritorno, che ogni anno si indebolisce sempre più e rimangono con le mani vuote a sperare in una riunificazione impossibile della vecchia famiglia e dei vecchi valori.
Ricordare quel viaggio in treno di quasi quarant'anni or sono lascia un senso di vuoto e di tristezza nel cuore anche perché oggi, che mia madre non c'è più, è subentrata la certezza che quei ricordi non possono essere neppure addolciti dalla presenza di un testimone dei tempi che potrebbe meglio di chiunque altro comprendere i miei momenti di disagio o di gioia e darmi la forza per superare le difficoltà o meglio gioire nelle soddisfazioni.
Così ti accorgi che il tempo, è vero, sei riuscito a fermarlo in un preciso momento della tua vita, e lo sogni ancora libero da impegni e da affanni con una speranza di ritorno a casa la sera successiva; ma ti accorgi anche che lo specchio dov'è riflessa la tua immagine è, invece, una galleria infinita di specchi che riflettono situazioni sempre più capovolte una rispetto all'altra anche se poi alle fine sono identiche, ma risultano collocate a distanze sempre maggiori l'una dall'altra senza possibilità di passare dall'ultima immagine alla prima con l'aprire od il socchiudere di una porta.
Ti rimangono così in cuore gli ultimi flash di un viaggio non recente con la visione di quel corteo di vecchie con in testa le "quartare" (*) piene d'acqua: fantasmi ondeggianti che si inerpicano sui fianchi della montagna e che spariscono poi negli anfratti coperti da siepi di more e biancospini, dove i merli nidificano ancora e le serpi continuano a portar via le uova dell'ultima nidiata.
Immagini di donne uguali a quelle di quarant'anni prima, sempre immutabili nei loro veli neri per un parente morto o ucciso per sbaglio.
Ed ai ricordi si aggiunge la consapevolezza che in questi posti, purtroppo, la storia sembra essere immutabile: la gente continua sempre, ancora oggi, a piangere per qualcuno o per qualcosa.

Santoro Salvatore Armando
(Campo Tizzoro 15.4.1998)


(*) - Otri di argilla

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